Kenya

Cronache dal futuro. Il mio viaggio a Nairobi, dove il mercato delle rose ha portato distruzione

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Sono al Nairobi Jomo Kenyatta International Airport. 11 maggio 2021, è passato più di un anno dall’inizio della pandemia. Mentre in gran parte dell’occidente si riprende lentamente a vivere, anzi a convivere, col Covid-19, qui infuria una guerra dissennata.

Martedì 11 maggio 2021

Il Boeing 747 del charter scende sotto il mantello di nuvole. Una distesa rossa, interrotta da oasi di verde e dalle anse marroni dei fiumi, mi dice che siamo in Kenya. Non vedo la cima del Kilimangiaro, sicuramente innevata, coperta dalle nuvole, ma scorgo una pianura verde e rigogliosa. Villaggi, strade sterrate percorse dalle jeep, che si lasciano dietro una scia di polvere. Fra poco toccheremo terra.

Sono al Nairobi Jomo Kenyatta International Airport. 11 maggio 2021, è passato più di un anno dall’inizio della pandemia. Mentre in gran parte dell’occidente si riprende lentamente a vivere, anzi a convivere, col Covid-19, qui infuria una guerra dissennata.

Il bollettino dei morti e dei contagiati non accenna ad abbassarsi ma sono in molti a sostenere che le cifre vere sono ben altre e non vengono rese pubbliche per evitare una rivolta. La popolazione s’è comportata in maniera disciplinata per i primi mesi ma è chiaro che nei villaggi e nelle periferie, le condizioni di vita, già di per sé disastrose, non hanno permesso un ferreo controllo delle contaminazioni.

Nairobi Città

Altro che app, altro che dichiarazioni del governo e della stampa. Già prima di dicembre si era passati dalle minacce alle vere e proprie caccia all’uomo. La polizia, che non è mai stata tenera, non si faceva scrupolo di malmenare i contravventori e, in molti casi, non ci si è limitati alle sole botte. Ma questa opera di repressione non è sistematica. Serviva a dare un esempio ma quando la miseria e il contagio hanno preso il sopravvento nei quartieri poveri, anche la polizia ha preferito desistere e lasciare il più possibile gli slum con i loro derelitti al loro destino. Si parla di morti raccolti per strada, come è successo in Ecuador e in altri paesi sudamericani e asiatici e poi bruciati per evitare il diffondersi del contagio. A New York nel momento del picco dei morti si preferirono le fosse comuni, certo, bruciare sui roghi i morti a Manhattan non sarebbe stato possibile.

Nairobi e il Kenya sono inseriti nell’elenco dei Paesi pericolosi dalla Farnesina. Lo sono da tempo. Le segnalazioni vennero ampliate e inasprite già nell’aprile dello scorso anno. “Nel paese sussistono tensioni politiche latenti” si leggeva sul sito del Ministero. Oramai i disordini e i blocchi stradali erano all’ordine del giorno, come gli episodi di violenza e gli assalti ai mercati e alle farmacie.

Nairobi

Nessun attentato, come quello del 5 gennaio 2020, contro una base militare dell’isola di Manda, che aveva causato morti e feriti. Probabilmente anche la lotta politica aveva rinunciato ai suoi obbiettivi per cavalcare il vento di rivolta. Enkare nai-robi in lingua masai significa luogo dell’acqua fredda, ed è una doccia gelata quella che ogni mattina colpisce il paese sotto i colpi del nemico virus che non demorde. Del resto perché dovrebbe arrestarsi l’epidemia, se si si continua a vivere in troppi in spazi angusti, se le dotazioni cautelative non vengono distribuite e usate, se si continua a vedere assembramenti nelle strade, a qualsiasi ora, nonostante il coprifuoco indetto dal Governo dalle 18 di sera alle 6 del mattino e non solo. Sono chiuse le scuole, da oltre un anno, c’è il fermo di molte attività, il turismo è morto, molti negozi sono chiusi anche per mancanza di generi di consumo. Il volo che mi ha portato qui era un charter organizzato da vari organi di stampa e agenzie di comunicazione, professionisti che dovevano rientrare in Kenya, medici e personale sanitario di organizzazioni di soccorso internazionali.

La capitale del Kenya si trova a 1800 metri di altitudine, nell’interno del Paese, lungo la ferrovia Uganda Railway, che porta da Mombasa, sul mare, al confine con l’altro paese africano. Questa che era una delle più popolose città dell’Africa, con oltre 4,5 milioni di abitanti, era anche il punto di partenza dei safari, anzi era la Capitale dei Safari. Nei dintorni sorgono numerosi parchi e riserve, con le specie animali più note: ippopotami, rinoceronti, zebra, giraffe, gnu, leopardi, iene, leoni, un lago popolato da milioni di fenicotteri.

lake-nakuru-national-park

Questo era il “petrolio” di Nairobi, dal turismo traeva la sua fama e la sua entrata economica più significativa. Per poter partire ho fatto dei vaccini, non solo contro il Coronavirus ma anche il richiamo dell’antitetanica, il vaccino contro la febbre gialla, che tra l’altro dura dieci anni, quello contro il tifo, contro l’epatiteA e, per ultima, la profilassi antimalarica, prendendo le pastiglie di Malarone, che, rispetto alla cura più diffusa, cioè il Lariam, hanno molte meno controindicazioni e infatti sono stato e sto ancora benissimo.

All’aeroporto delle mie vaccinazioni non interessa a nessuno. Niente più che un formale controllo del passaporto. Consegno il documento che attesta la mia missione giornalistica, una specie di lasciapassare. Niente termometro laser, niente tampone, niente di niente. La mia mascherina e i miei guanti azzurri paiono bellissimi e super tecnologici rispetto a le pezze di stoffa stracciata sui volti dei poliziotti. Per altro non tutti indossano i guanti, ma hanno un manganello ben in evidenza e la pistola nella fondina. Segno che la paura della violenza è più forte della paura del contagio. La mia guida ha un cartello in mano col mio cognome scritto in maniera approssimativa ma fa niente. Si chiama Teddy, è un kikuyu. Ha studiato a Londra e parla perfettamente inglese e italiano. Non ci diamo la mano ma ci sorridiamo a distanza, l’hanno avvertito. 

Con una polverosa Jeep Cherokee ci dirigiamo verso l’hotel Kempiski, nella Quiromo Road, dove starò solo due notti. Le strade sono piene di buche, come a Roma (!), e di immondizia. Solo che qui non ci sono cassonetti e le cartacce e i rifiuti svolazzano ai lati della strada. Una polvere di terra chiara copre ogni cosa, anche le facce dei disperati che cercano di dare un senso alla loro vita, trascinando le gambe mentre chiedono da mangiare, soldi, qualsiasi cosa, sperando di poter svoltare la giornata.

Un odore nauseabondo mi assale, anche perché non riesco a chiudere del tutto e in tempo il finestrino. Una discarica a cielo aperto, sulla quale si muovono cani, uomini e bambini, espande il suo acre puzzo nella zona, mentre i liquami che da lì fuoriescono, si incanalano in fogne laterali alla strada, passando sotto i banchetti, con poche cose commestibili, come frutta e verdura. Chiedo a Teddy “Come fate a vivere così? “Lui scuote la testa e accenna ad allargare le braccia. Dopo anni di drammi e privazioni il fatalismo ti toglie ogni speranza.

Mentre camminiamo in questo girone dell’Inferno, Teddy ne approfitta per ragguagliarmi sulle disposizioni del Governo. Io dovrei essere sottoposto a quarantena, in teoria, ma valutando che arrivo da Roma, dove la situazione è sotto controllo, è più facile che me lo prenda qui il virus e che quello africano sia ben peggiore dell’eventuale italiano. Lui è armato, per ogni evenienza, perché il rischio più grosso, una volta evitato il contatto umano, è quello della criminalità. Specialmente per un europeo.  Bianco = Soldi è la facile equazione e per questo non viaggio solo. Dei ladri si sono spacciati per poliziotti, mi avvisa, quindi non possiamo fidarci di nessuno.  Meglio non viaggiare quando cala la sera, aumenta il pericolo di rapine, specialmente fuori città. Il mio hotel e anche gli altri dove dormirò, sono stati scelti in base alle garanzie di sicurezza. Non potrò indossare niente di valore, nemmeno come abiti o orologi, le machine fotografiche sono proibite, il cellulare va tenuto nascosto e usato solo quando non si è all’aperto. Ci sono delle zone della città dove non possiamo andare. Non devo accettare bevande o cibi offerti da sconosciuti. Potrebbero essere drogati o avvelenati.

Le portiere della jeep devo restare chiuse come i vetri e con la sicura inserita. Qualsiasi cosa accada non devo fare niente, pensa a tutto Teddy. Se per un caso fortuito mi trovassi solo senza la presenza della mia guida, devo chiamare un numero di telefono, un servizio speciale dell’Ambasciata italiana. Intervengono loro con la polizia privata. Mentre mi dice tutte queste utili informazioni, penso al destino di Nairobi, già segnata dalla peste bubbonica che l’aveva martoriata all’inizio del XX secolo. Venne bruciata del tutto, per debellare l’epidemia, per poi essere ricostruita pochi anni dopo. Mi domando se quella delle fiamme potrebbe essere di nuovo una soluzione.

Teddy mi lascia davanti al Villarosa Kempiski, in pieno centro affari, un albergo elegante, con uno stile ricercato e soprattutto con cucina italiana. Guardie armate all’ingresso e nei giardini assicurano la tranquillità dei clienti. Si paga con credit card. Non ci sono contatti. Il facchino indossa regolari guanti e mascherina. Teddy mi saluta e mi dà appuntamento a domani mattina. Una volta in camera ripasso gli appunti per domani.

L’Hotel Kempiski 

Nairobi ha avuto una crescita rapida, agevolata dalla dichiarazione di indipendenza del 1963, quando i britannici se ne sono andati come occupanti ma essendo già ben inseriti nei gangli economici del paese. Le tensioni tra coloni e popolazioni masai e kikuyu di cui si parla anche nel famoso film “La mia Africa”, sfociarono nella rivolta dei Mau Mau che poi portò alla indipendenza. Ora che i kenioti erano “liberi” potevano finalmente pagare il loro tributo alle grandi compagnie del capitale occidentale. General Motors, General Electric, Google, Coca Cola e Celtel hanno la loro sede e anche i loro stabilimenti qui. Intorno alla città sorgono industrie manifatturiere di abbigliamento, tessuti, materiali da costruzione, alimentari, sigarette, pneumatici Goodyear, la Toyota. Cosa hanno cambiato queste aziende nella vita dei kenioti? Per assurdo le Nazioni Unite hanno posto qui il quartier generale del Programma sull’Ambiente e sugli Insediamenti umani. Ora è tutto chiuso, infatti. Tutto tranne l’industria dei fiori. Ma ne parleremo più avanti.

Dopo una colazione frettolosa, trovo Teddy nella hall ad aspettarmi. Andiamo. La temperatura è mite. Siamo pur sempre quasi all’equatore e gli inverni non sono così differenti dall’estati. Siamo ancora nel periodo delle piogge ma stanno terminando. Attraversiamo la città.  Chiedo a Teddy di rivedere i quartieri residenziali di Nairobi. Quelli che un tempo erano i quartieri più belli, come Upper Hill e le Westlands, dove hanno sede la Citibank e la Coca Cola. Trovo strade senza traffico e con evidenti segni di violenze alle vetrine dei negozi e sui cancelli e i portoni delle case. Nella zona ovest attraversiamo Karen, Langata, Lavington, Highridge, tutti quartieri bene della borghesia europea. Molte case non sono più abitate. Ci sono evidenti stati di abbandono nei Giardini incolti, le auto con i vetri rotti e le portiere aperte, abbandonate lungo I viali. Chi ha potuto ha lasciato la città per rifugiarsi nelle “farm” in campagna o per tornare in Europa. Attraverso anche Muthaiga, il quartiere delle ambasciate, la nostra e quella della Cina Popolare sono aperte ma quella americana è sbarrata da tempo e anche quelle olandese e tedesca. Passiamo per Tchui Road, che era la strada più chic, forse una delle più belle del Continente. Ora sembra un campo di battaglia, dove non ci sono più combattenti, solo detriti e rovine. Il territorio urbano della città era punteggiato di parchi e spazi verdi, dove adesso bivaccano i senza tetto. Il più famoso è l’Uhruru Park che costeggia il centro degli affari di Upper Hill. Accanto c’è il Central Park dov’è il monumento al vecchio presidente Jomo Kenyatta. Ai suoi piedi un vecchio sta tagliando un copertone d’auto per farne delle scarpe. Ho la sensazione di quei documentari girati a Chernobyl dopo l’esplosione della centrale nucleare. Si trovano su Youtube.  Case diroccate, oggetti sparsi nelle stanze, gente fuggita lasciando tutto com’era. Diamo un’occhiata anche alla bidonville, sono un centinaio di baraccopoli che ospitavano due milioni di abitanti. Se erano drammatiche le scene degli slum prima, figuriamoci adesso. Non sappiamo in quanti siano rimasti vivi. Passiamo veloci ed evitiamo di entrare nei vicoli tra le baracche di Kibera e di Mituba. Mi dice Teddy che qui c’era il 60% di sieropositivi prima della epidemia. Secondo te quelli ora si preoccupano del Corona Virus?  Di fatto siamo tornati indietro di 50 anni. In molti hanno abbandonando le bidonvilles. Per procurarsi il cibo sono tornati al villaggio a coltivare i campi. Una specie di urbanizzazione al contrario. Stare in città non serve a niente. La città sta morendo.

È ora di pranzo. Meglio tornare al Kempiski.

Il giorno dopo andiamo a nord, verso Naivasha, dove si coltivano le rose e ci sono ancora attività aperte. Teddy mi ha riservato un lodge superprotetto da quelle parti. Dormirà lì anche lui per sicurezza. Lungo la strada, appena fuori da Nairobi, il paesaggio è quello degli slum di periferia. Gironi dell’Inferno. In una valle vediamo gente in divisa attorno a delle camionette e del fumo che sale da alcuni roghi. Lingue di fuoco si alzano voraci mentre un fumo intenso nero avvolge la zona. Stanno bruciando i cadaveri raccolti per strada, dice sommessamente Teddy. In queste settimane la gente muore e resta lì per terra finché non passano le squadre della polizia a raccogliere i cadaveri per bruciarli. Era successo la stessa cosa in Ecuador, già un anno fa e poi è continuata in alcuni paesi sud americani e asiatici. Roghi in periferia, anche cadaveri gettati in mare. A New York, durante il picco dei morti, si scelse di scavare fosse comuni e coprirle col cemento. Certo bruciare cadaveri sui roghi a Manhattan non sarebbe stato possibile.

Le vittime di Coronavirus in Ecuador lasciate in strada

Usciamo dalla periferia. È quasi un’ora che corriamo su questa strada che conserva solo un vago ricordo di quello che si chiamava asfalto. Adesso è piena di buche, ciottoli, è coperta dalla terra spinta dal vento. Ogni tanto un’ombra cammina ai lati della strada. Camminano, vanno, in un senso e nell’altro ma sembrano non avere una meta. Il paesaggio cambia drasticamente. Iniziano le piantagioni di banani nei campi, si alternano con altri alberi di frutta che occupano gli spazi tra le baracche e i piccoli villaggi, tutti affacciati sulla strada. Alcune di queste baracche hanno il tetto di lamiera, altre sono fatte di sterco e fango, altre in cemento, con blocchi prefabbricati quelle più ricche. Si fa per dire. Le famiglie che le abitano sono numerose e mi immagino cosa sia passare il tempo chiusi lì dentro, infatti nessuno ci sta. Come esce il sole, gli uomini vanno nei campi, i bimbi nella strada a giocare, le donne avvolte in tele vivaci multicolori, lavano i panni. Una operosità che mi apre il cuore, dopo aver visto l’Inferno della città. Ci sono ogni tanto anche dei gerani rossi nel giardinetto all’ingresso, su un davanzale, accanto a un vecchio che fuma seduto, a guardare chi passa. Una volta i bambini correvano incontro all’auto di passaggio, adesso sembrano spaventati. Anche loro si rendono conto che il contatto con lo straniero può essere pericoloso? No, forse vedono che gli adulti si tengono distanti dal forestiero e intuiscono che sia meglio così. In campagna non si è mai sofferta la fame vera, mi dice Teddy, perché i campi ti danno da vivere e la natura qui all’equatore è generosa. Basta una capra per il latte, qualche gallina che fa le uova, un orto per le verdure e poi le piante di frutta ti danno sostanza senza fatica. Più ci allontaniamo da Nairobi e più il paesaggio si fa bello. I laghetti sono coperti da ninfee, la natura intorno è rigogliosa, mille tonalità di verde fanno capire che le recenti piogge hanno nutrito bene la terra, che ora restituisce la linfa vitale attraverso il colore delle foglie, sotto i raggi di sole. Sembra di uscire dall’Inferno ed entrare in Paradiso. Nella savana, che ora si stende davanti a noi a perdita d’occhio, corrono le antilopi, i bufali, le giraffe, le zebre. Mandrie di gnu pascolano tranquille. Una famiglia di babbuini attraversa la strada per andare verso un boschetto che forse è casa loro. Un’altra famiglia di elefanti procede in fila indiana a una distanza di un chilometro dalla strada. Il cielo è attraversato dai voli di ogni specie di uccelli, ogni tanto appare un rapace con una grande estensione alare, è l’aquila pescatrice che vive vicino ai laghi e ai corsi d’acqua.

Ci fermiamo in un posto di ristoro, molto disastrato ma dignitoso. Posso prendere un bicchiere di caffè? Chiedo alla mia guida.  Lui si propone di assaggiarlo prima per me. È una brodaglia insulsa e amarognola, ma è qualcosa da trangugiare. Il “barista” indossa una mascherina comprata chissà quando o forse scambiata con un ananas o tre banane. Tutto intorno è sporco ma ordinato. Sta per arrivare la sera e non possiamo viaggiare con l’oscurità. Manca un’ora al nostro lodge. Non ne dirò il nome perché potrebbe essere rintracciato e i proprietari non desiderano visite non organizzate, vivono super protetti, mi spiega Teddy. Sono discendenti del Conte di Mountbatten, che viveva qui negli anni ’40. Ora il lodge e la riserva intorno appartiene a suo nipote Michael e la moglie Dodo ma loro sono a Londra attualmente. Viene gestita dal figlio Dominic, fotografo di guerra, e sua moglie Casilda, figlia di un ex ambasciatore spagnolo a Riad. Hanno trenta impiegati e 15 guardie armate a proteggere la villa e il parco dai bracconieri e dai ladri. Il posto è un vero Paradiso. Ci arriviamo mentre il sole cala dietro le montagne. Appena in tempo per evitare di essere fermati dall’esercito o dai malfattori.

Teddy ha mostrato alle guardie all’ingresso la prenotazione e poi s‘è recato alla reception a prendere le chiavi del lodge. Torna dalla villa con un mazzo di chiavi e con Dominic, il proprietario. Sua moglie Casilda, in italiano, mi dà il benvenuto. Dominic ha l’aria di un vero inviato di guerra, con un completo caki para militare e stivali di cuoio. Ci salutiamo a distanza con un cenno, come si fa da quasi un anno, ormai. Se avessi fame Casilda può mandarmi un vassoio in camera con tutto quello che desidero. Lascio a lei la scelta perché mi sembra una donna che sa come vivere. Dormiamo in una torre altissima tutta in legno. Da ogni finestra si dovrebbe vedere il parco, ma adesso è buio e non si vede niente. Sentiamo solo il grugnito degli ippopotami, che pascolano nel prato e qualche uccello notturno che lancia messaggi. La torre, mi dice Casilda, è alta 90 metri e ha otto piani, era una delle ville di lusso più frequentate da personaggi facoltosi di tutto il mondo. È stata costruita da Dodo Cunnigham-Reid, la mamma di Dominic, come torre di avvistamento della natura circostante. Ci sono 4 camere doppie con bagno e una singola a piano terra, una grande cucina, un soggiorno ampio, un balconcino che si affaccia su un laghetto, una sala da meditazione con tanto di bar super fornito e una piccola stanza che occupa l’ottavo piano e dalla quale si vede tutto il panorama del parco. Quanto costa dormire qui? Prima dell’epidemia costava 650 dollari a persona a notte. Adesso ce la lasciano per 100 dollari. E dove dobbiamo dormire? Scegliete voi dove volete. Teddy sceglie la stanza del terzo piano, molto sobria. Io scelgo la camera al quinto piano, molto raccolta, fresca, profumata. Un sogno dopo quello che ho visto. Due camerieri mi portano un vassoio con porcellane e argenterie d’epoca. Insalata, bistecca di struzzo, pane ancora caldo, fragole condite con zucchero e limone, un avocado sbucciato e del riso basmati in bianco. Infine una bottiglia di Blange’, del mio amico Ceretto in Piemonte, fresca al punto giusto. Sapevo che ne vendeva parecchie ma non che arrivassero fin qui.  Mi addormento cullato dai suoni della foresta vicina, in questa notte africana, pensando che qui hanno dormito Liv Tyler e Madonna ma il pensiero non mi sconvolge per niente. Penso invece all’economia di prima che non tornerà più e forse non è un male, erano tanti gli sprechi.

La mattina mi svegliano dei grugniti che provengono dal giardino. Sono le giraffe, madre e figlia, che pascolano tra le piante mangiando foglie di baobab. Scorgo una bellissima e seducente piscina ma non è il caso di pensare al bagno. In fretta mi preparo e scendo in cucina, dove trovo una colazione continentale allestita per un Re, con tanto di rose bianche nel vaso e Teddy che sta terminando una “tortilla al queso”. La struttura dispone di personale di servizio e di cucina, sicurezza 24/7 e una squadra di guardiani per accudire gli animali selvatici, come una giraffina orfana di un mese e alcune zebre rimaste senza madre. Lo spazio della fattoria – resort è di 370 ha, immersi in un parco vastissimo di 188 kmq, che arriva alle falde del Kilimangiaro. In questa zona ce ne sono diversi di lodge del genere. Negli anni 20 del secolo scorso questi erano i luoghi di divertimento di una nobiltà decaduta e di una borghesia prepotente.  La chiamavano Happy Valley, qui i coloni si permettevano qualsiasi abuso, passavano di festa in festa, si scambiavano le mogli come se la vita fosse un gioco continuo e all’infinito. Certo questo è un Paradiso ma bisogna meritarlo. Prima dell’epidemia i lodge erano sempre pieni di turisti: russi, americani, arabi. Anche Steve Jobs venne qui, in una pausa di lavoro, con la famiglia. Non riuscì a mettersi in contatto con la sua sede in California e se ne andò. Non capì che correre non serve a niente, che non è necessario. Altra gente veniva qui per isolarsi o per vivere la vacanza avventurosa e più bella della loro vita. I safari col binocolo avevano sostituito la caccia grossa dei decenni passati. Ora sono pochi quelli che vanno a vedere il riposo dei leoni o a fotografare la cattura della gazzella da parte di un ghepardo. Ci rendiamo conto che abbiamo fatto così male alla natura che non meritiamo di godere del suo spettacolo più affascinante, quella della lotta tra la vita e la morte. Un senso di nullità, di colpa, di paura ormai oscura il nostro futuro. Qui siamo in un luogo fatato ma tutto attorno c’è solo disperazione e l’abbiamo creata noi.

Naivasha è la città più vicina. Un tempo era abitata da 200 mila persone, molte sono morte, altre sono tornate al villaggio.  Vive di due industrie: il turismo e la coltivazione di fiori. Il turismo orientava il pubblico verso il Parco Nazionale Hell’s Gate o verso il Parco Nazionale Mount Longonot o lo stesso lago Naivasha, per osservare l’avifauna e gli ippopotami. 

lago Naivasha

Ora il turismo è fermo da un anno, mentre per i fiori l’attività non s’è mai interrotta, sarà perché servono per i funerali? A me piace pensare che sia per un senso di vitalità, magari effimera ma gioiosa, che le piante rappresentano. Qui si coltivano soprattutto rose. Grazie alla presenza del lago Naivasha che rifornisce alle imprese florovivaistiche l’acqua necessaria. Tuttavia l’industria, specie se intensiva, non va mai d’accordo con la natura. Infatti i percorsi migratori lungo il lago sono stati interrotti dalla presenza delle coltivazioni, anche per gli scoli nel lago dei rifiuti con fertilizzanti chimici. Con la nostra Jeep riprendiamo la strada sterrata, con una finissima terra rossa. Il cielo è di un azzurro intenso, immacolato, a parte qualche nuvoletta bianca. Il caldo è soffocante. Meno male che Teddy ha con sé una borraccia di acqua gelata. Corriamo per una mezz’ora finché arriviamo nei pressi del lago, dove delle serre grandi come hangar mi annunciano il vivaio. Attorno adesso la vegetrazione è rigogliosa, sarà per la vicinanza dell’acqua. Ci sono degli elefanti che giocano dentro le pozze, sollevando schizzi e bagnandosi felici.

Flowers farm in Kenya

Caldo, acqua e una terra fertile, ecco quello che serve per coltivare fiori. Ma c’è un altro elemento strategico. Mano d’opera a basso costo. Chi lavora nelle serre non ha un contratto a tempo indeterminato e guadagna circa un terzo di un centesimo per ogni rosa raccolta, ovvero 40 euro al mese. Quando arriva gennaio e febbraio occorrono altri lavoratori. Ogni giorno partono un milione di fiori per i mercati europei, per San Valentino raddoppiano! I lavoratori aggiunti, manco a dirlo, guadagnano ancora meno e hanno orari massacranti. Se una donna resta in cinta perde il posto. In molti casi le donne sono vittime di ricatti sessuali da parte dei capi. Non c’è sindacato, non ci sono diritti. Non c’è rispetto di norme sanitarie o igieniche, nemmeno adesso per l’epidemia. Se qualcuno si ammala o muore c’è chi lo sostituisce. La presenza di fertilizzanti e pesticidi può determinare infezioni nei lavoratori. Di certo inquina le acque reflue e così anche il lago Naivasha risulta contaminato. La gente che lavora qui non sa che fine fanno le rose. Non sa che una volta in Europa verranno comprate per essere regalate. In pratica si coltivano le rose per farle appassire in un vaso. Ci può essere qualcosa di più assurdo? Uno spreco di vite, fatica, un danno alla natura che si esaurisce in un bel gesto e nulla più. È questa la civiltà?

Il lago ha una superficie di 115 kmq e per coltivare un metro quadro di rose servono 7 litri di acqua al giorno. Così il lago si abbassa giorno dopo giorno. Verrà il momento in cui gli animali di Naivasha non avranno più il lago dove abbeverarsi e quelli che lo avranno fatto saranno morti per avvelenamento. Un disastro ecologico perpetrato ai danni di un ambiente, una popolazione, ai danni della fauna e della natura stessa. Ovviamente l’accesso al lago è vietato alla popolazione, prigionieri a casa loro. Chi emette queste ordinanze? Il governo, chi le chiede, la multinazionale olandese come la Sher Agencies, che sfrutta questa situazione da anni. Qui sono gli olandesi, in altre parti dell’Africa sono i francesi, i belgi, gli inglesi, i tedeschi, i canadesi, i cinesi, non sempre sono solo gli americani. Poi in Europa si sente dire, “che se ne stiano a casa loro”, quando si parla di migranti africani!

I fiori raccolti viaggiano di notte in aereo, al costo di 2€ al kg.  Chiusi in celle frigorifere a -40 gradi e sbarcati ad Aalsmer, in Olanda.

Flowers Farm in Kenya

Da qui portati all’asta di Flora Holland e poi via via inviate ai vari mercati. Il Kenya non è il solo produttore. Le rose arrivano anche da Colombia, Ecuador, Sicilia e dalla stessa Olanda. È un mercato che dà grandi guadagni alle società multinazionali, favorendo investimenti notevoli nel settore. Si tratta di aziende che operano in un regime di detassazione o di fiscalità agevolata. Tutto questo non si traduce in migliorie per i lavoratori, anzi lo sfruttamento è maggiore dove ci sono più agevolazioni. Il business attira il riciclaggio di denaro sporco, proveniente dal narcotraffico. Così va il mondo. Presto l’immagine di milioni di fenicotteri in volo, come coriandoli rosa, sull’argento di uno specchio d’acqua, mentre l’elicottero supera le colline viola della Great Rift Valley sarà solo un ricordo lontano, una favola da raccontare ai nipoti. Questo perché da un lato c’è chi pensa solo a distruggere per straguadagnare. Poco importa se scatena contaminazioni, disastri, malattie, epidemie. Passata la bufera tutto ricomincia.

Sarà così anche questa volta?

AVVERTENZA: I dati, i personaggi e le informazioni che trovate in questo articolo sono in parte veri e in parte un’opera di fantasia. Le vicende di viaggio sono ambientate in un futuro ipotetico, anche se abbastanza possibile.