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Dal 1970 affluenza in picchiata dall’ 87,7% a 20,4%. A giugno si torna a votare
Dal 1946 a oggi, l’Italia ha visto ben 78 referendum nazionali: 72 abrogativi, 4 costituzionali, 1 di indirizzo e il celebre istituzionale del 1946 che sancì la nascita della Repubblica. Una lunga storia di democrazia diretta, che però negli ultimi anni sembra aver perso decisamente smalto, complici affluenze sempre più basse, ma soprattutto una crescente disaffezione degli elettori. E questo nonostante i quesiti che sono stati posti agli italiani siano estremamente importanti. come, per esempio, il referendum sulla cittadinanza per il quale si potrà votare l’8 e il 9 giugno prossimi.
I referendum sono in realtà cinque. Quattro di questi mirano a modificare norme su licenziamenti, contratti a termine e sicurezza sul lavoro. Il quinto, sostenuto da +Europa e altre forze politiche, propone di ridurre da dieci a cinque anni il periodo di residenza necessario per ottenere la cittadinanza italiana. Temi caldi, che toccano da vicino la vita di molti cittadini. Resta da vedere se anche questa volta come nelle ultime tornate referendarie la partecipazione sarà ai minimi termini.
Quorum referendum abrogativi, solo 39 su 72 validi
I referendum abrogativi permettono ai cittadini di esprimersi su una legge già esistente decidendo se mantenerla o cancellarla. Si tratta di uno degli strumenti più diretti di partecipazione democratica, ma anche uno dei più “esigenti”: perché l’esito sia valido, serve che alle urne si presenti almeno la metà più uno degli aventi diritto.
Dal 1974 al 2022 si sono svolti in Italia 72 referendum abrogativi, con una media di affluenza del 50,13%. In ben 33 casi il quorum non è stato raggiunto, con un’affluenza media del 29,42%. Solo in 39 occasioni si è superata la soglia del 50% più uno degli aventi diritto, con un’affluenza media del 67,63%.
Nel tempo, la partecipazione è calata drasticamente. Nel 1974, per il referendum sul divorzio, si recò alle urne l’87,7% degli elettori. Nel 1978, l’affluenza fu dell’81,2% su due quesiti: uno chiedeva di abrogare alcune norme sull’ordine pubblico, l’altro riguardava il finanziamento pubblico dei partiti politici. In entrambi i casi, la partecipazione fu massiccia e il dibattito acceso. Nel 2022, per cinque quesiti in materia di giustizia (tra cui separazione delle carriere, custodia cautelare e riforma del Csm), l’affluenza è crollata al 20,4%. Un dato che evidenzia quanto lo strumento referendario si sia progressivamente svuotato di efficacia, trasformandosi da occasione di coinvolgimento popolare a formalità o “giochino” politico.
L’inesorabile crollo dell’affluenza alle urne
L’interesse cominciò a calare già negli anni Ottanta: l’affluenza oscillò tra il 79,4% e il 65,1%, pur rimanendo ampiamente sopra il quorum. Ma fu negli anni Novanta che il segnale d’allarme diventò evidente: alcuni quesiti – come quelli sulla privatizzazione della RAI o sull’abrogazione del Ministero dell’Agricoltura – non superarono il 30% di affluenza. Il quorum del 50% è diventato così sempre più un ostacolo difficile da raggiungere e, in molti casi, un mezzo strategico per affossare il referendum, favorendo chi preferisce lo status quo semplicemente evitando di votare.
Negli anni Duemila il calo è diventato strutturale. L’unica eccezione è il referendum del 2011, che superò il quorum con il 54,8% di affluenza. In quell’occasione si votò su acqua pubblica, nucleare, profitto nei servizi idrici e legittimo impedimento, in un contesto politico segnato da una forte opposizione al governo Berlusconi. Dopo quella parentesi, il disinteresse è tornato a dominare: nel 2022, i cinque quesiti sulla giustizia hanno attirato solo il 20,4% degli elettori.
Come sono andati i referendum costituzionali
In Italia si sono tenuti 4 referendum costituzionali tra il 2001 e il 2020, che – a differenza di quelli abrogativi – non prevedono il quorum per essere validi. Solo due di questi hanno prodotto un cambiamento concreto. Il primo è stato quello del 2001, con un’affluenza del 34,05% e la vittoria del “Sì” (64,21%) alla modifica del Titolo V della Costituzione, che ha ampliato le competenze delle Regioni. Il secondo è stato quello del 2020, con il 69,96% di “Sì” e un’affluenza del 51,12%, che ha approvato il taglio del numero dei parlamentari, in un contesto politico segnato dalla crisi post-Covid e da un’ampia convergenza tra maggioranza e opposizione.
Gli altri due referendum non hanno superato la prova delle urne. Nel 2006, il 61,29% votò “No” a una riforma costituzionale voluta dal centrodestra e l’affluenza fu del 52,46%. Ancora più alta la partecipazione nel 2016 (65,48%), quando il “No” (59,12%) bloccò la riforma Renzi-Boschi, in un clima polarizzato che si trasformò in un vero e proprio voto politico contro il governo. In sintesi, solo quando la riforma è stata sostenuta da un ampio consenso e un basso tasso di conflittualità politica, il referendum ha portato a un cambiamento effettivo.
…e quello istituzionale e quello di indirizzo
Si è tenuto un solo referendum istituzionale, ma ha segnato un passaggio storico: il 2 giugno 1946, con un’affluenza dell’89,1%, gli italiani furono chiamati a scegliere tra monarchia e repubblica. Vinse la repubblica con il 54,3% dei voti. Il voto avvenne in un clima di ricostruzione dopo la guerra e la caduta del fascismo, ed è considerato l’atto di nascita della Repubblica Italiana.
L’unico referendum di indirizzo si è svolto invece il 18 giugno 1989, in un clima di forte spinta verso l’integrazione europea. Il quesito – di tipo consultivo, quindi non vincolante – chiedeva se conferire al Parlamento europeo un mandato costituente. L’affluenza fu dell’80,7%, con una vittoria schiacciante del “Sì” (88%). Quel giorno si toccò anche un primato storico: con 37.560.404 votanti, fu il referendum con il maggior numero di partecipanti nella storia della Repubblica. Pur senza effetti giuridici immediati, rappresentò una presa di posizione chiara dell’Italia sul futuro dell’Unione Europea.
Fonte: Ministero dell’Interno