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Rapporto Censis sulla Comunicazione 2024, l’anno del cultural divide?

Nel lontano 1995 Bill Gates, il fondatore di Microsoft, nel suo documento programmatico “The Internet Tidal Wave” predisse – forse è più giusto dire immaginò – che Internet, come un “maremoto”, avrebbe cambiato radicalmente molti aspetti della nostra vita quotidiana, a partire dal modo in cui ci saremmo informati. Nel leggere il 19° Rapporto sulla Comunicazione “Il Vero e il Falso” del CENSIS e presentato alcuni giorni fa mi sono tornate in mente le parole di quel documento. Scriveva Gates: “Un naturale ampliamento (…) sarà l’informazione su misura (…) per avere la dose quotidiana di notizie, ci si potrà abbonare a diversi servizi di rassegna stampa e lasciare che sia un software agent oppure un agente in carne ed ossa a scegliere e selezionare da quei servizi, per creare un “giornale” completamente su misura. Questi servizi abbonamento siano essi umani o elettronici, raccoglieranno informazioni conformi a una filosofia e a un insieme di interessi particolari”.

Il documento del CENSIS analizza da quasi venti anni le tendenze nel consumo dei media e la tecnologia in Italia, evidenziando la progressiva stabilizzazione dell’uso di internet, di smartphone e social media. Il 19° Report, sempre ricco di dati e ben commentato, evidenzia a mio parere almeno tre questioni importanti su cui occorre prestare attenzione.

Partiamo dalla prima considerazione che riguarda le “diete mediatiche” degli italiani, con particolare riferimento ad un aspetto centrale della sfera pubblica digitalizzata: come si informano nel 2023 gli italiani? I dati riportati sono di grande interesse ed evidenziano dei fenomeni di trasformazione repentina su cui si presta troppa poca attenzione. Sta avvenendo esattamente quello che scriveva Gates, con i consumi informativi che variano in funzione di una personalizzazione sempre più accentuata, fatta di media quasi esclusivamente digitali di diversa natura che si compongono in un “giornale completamente su misura”.

I telegiornali, pur mantenendo la posizione di testa della graduatoria dei media attraverso i quali gli italiani si informano, passano dal 51,2% al 48,3% dell’utenza, tra i giovani 14-29 anni il 23% (ma nel 2011 era l’80,9%!). Google scala le classifiche e giunge al secondo posto con il 29,7% (tra i giovani 14-29 anni 34%), seguito da Facebook – che scende ma non crolla – con il 29% (tra i giovani 14-29 anni 48%) e dalla buona prestazione delle Tv all-News (RaiNews24, Tgcom24, SkyTg24) con il 19,6% dell’utenza (tra i giovani 14-29 14,2%). Degno di nota è l’exploit di YouTube come fonte d’informazione che dal 2019 al 2023 ha registrato un incremento del 6,6%, per assestarsi nell’ultimo anno su un’utenza pari al 18,5%. Un contraccolpo sul versante dei quotidiani digitali (16,2%) che perdono il 3,1% nell’ultimo anno, passati dal 14,3% all’11,8%. Dopo Facebook e YouTube, fa il suo ingresso trionfale l’enfant prodige dei social network, Instagram, che è considerato dal 15,3% degli utenti una fonte d’informazione a tutti gli effetti e costringe i giornali radio, con il 13,7% di utenti, a una ritirata, seguito da TikTok con l’8,1% (tra i giovani 14-29 anni 14,7) e da un timido ma promettente 1,3% di utenti che si informano su Podcast (tra i giovani il 2,8%).

Il netto crollo dei quotidiani a stampa, utilizzati solo dall’8,1% degli italiani, 4,2 tra i giovani (nel 2019 era 17,5%!) si accompagna all’ulteriore discesa dei settimanali mensili cartacei, passati dal 5,1% del 2019 al 4,7% (tra i giovani ci si attesta tragicamente attorno al 1,7%) e ci conduce alla seconda – forse banale – considerazione: l’approfondimento – fatta salva la TV – non passa più esclusivamente per il mondo del giornalismo tradizionale, sostituito quasi in toto dai nuovi gatekeeper digitali (YouTube su tutti) nei quali influencer, content creator, comunicatori e divulgatori hanno creato nuovi format che riescono a catturare l’attenzione e l’interesse delle persone (Braking Italy e GioPizzi, per citarne un paio più generalisti).

Gli italiani che si informano solo ed esclusivamente su internet sono ormai la netta maggioranza, con una dieta mediatica differenziata e spesso personalizzata. Questo dato oggettivo, insieme alla crisi della carta stampata, si parla di press divide, di cui abbiamo appena dato conto, apre alla terza ed ultima considerazione, quella di carattere più antropologico. Nel 2023 il CENSIS riporta un deciso attenuamento del digital divide (la difficoltà di accesso o utilizzo delle tecnologie digitali) anche nella fascia più anziana della popolazione che si sovrappone alla diffusione sempre più massiva dello smartphone, il vero re del nostro infotainment.  Ciò che dovrebbe preoccuparci, tuttavia, è l’affermazione di una nuova forma di separazione, non più nell’accesso – con buona pace di Rifkin, ma nella capacità di utilizzare (e magari diversificare) il proprio rapporto con i media digitali. Parliamo di cultural divide, a mio parere uno degli elementi più rilevanti del Rapporto, per riferirci alla disparità tra gruppi diversi nella capacità di accedere, comprendere e utilizzare efficacemente i media digitali. Queste differenze possono derivare da variabili culturali, educative e socio-economiche, influenzando così l’alfabetizzazione digitale e la partecipazione nell’ambiente digitale globale. La perdita di confidenza con la lettura dei testi a stampa favorisce, in particolare, l’analfabetismo funzionale, uno dei problemi più spinosi con cui sono costretti a confrontarsi la maggior parte dei Paesi sviluppati, in cui l’analfabetismo in senso stretto è stato debellato ma in cui permane un’ampia fascia di popolazione che presenta notevoli difficoltà a comprendere e produrre sia discorsi che testi appena poco più che elementari. Come sostiene il premio Nobel Cass Sunstein vi è una discriminazione interna alla popolazione che sta assumendo tratti e percorsi preoccupanti. Si tratta di un paradosso della digitalizzazione, quello dello scarto tra le infinite possibilità di approfondimento delle conoscenze che la rete apre in tutti i campi del sapere e la effettiva crescente esclusione da tali possibilità di una grande fetta della popolazione anche delle giovani generazioni. Il rischio imminente più grave è quello appunto della perdita di capacità di “pensare complesso” di criticare e criticarsi, di dubitare, di confrontare, di scavare e i non accontentarsi di quel che si è appreso. Non cerchiamo rimedi significativi a quella deriva contando sulla “buona coscienza” delle grandi piattaforme digitali”.

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