L’ecosistema dei social network è un vero e proprio metaverso con dinamiche che derivano da una forte interrelazione fra il fattore umano e la logica degli algoritmi. Nel tempo, fra le strategie intraprese da parte degli utenti attivi della piattaforma, è emerso il fenomeno del ragebaiting ovverosia quel complesso di operazioni che sfocia nella creazione di contenuti (post, commenti, etc.) fortemente provocatori allo scopo di attrarre reazioni di rabbia ed indignazione.
Si tratta di una vera e propria attività di ingegneria sociale in cui sono individuati argomenti e tematiche polarizzanti per costruire un contenuto che eviti di violare termini e condizioni d’uso per non incorrere in ban e limitazioni e al contempo integrare un magnete per visualizzazioni, reazioni, commenti e ricondivisioni. Il risultato è un aumento dell’engagement, poiché le interazioni vengono semplicemente lette dall’algoritmo che non entra nel merito delle stesse e dunque non valuta se siano in adesione o opposizione rispetto al contenuto. Il premio è una maggiore visibilità, un posizionamento in trend, con la conseguenza di innescare ancora più interazioni.
Alcuni esempi ricorrenti sono le critiche spietate nei confronti di personaggi particolarmente popolari o le loro opere, in cui viene descritta come “sopravvalutata” una canzone di particolare successo mondiale, un cantante o altrimenti l’andare a colpire un intero genere, come la musica classica o l’heavy metal. È prevedibile che così si attirino le attenzioni – e le ire – dei fan. C’è poi il trend dell’oltraggio culinario, in cui alcune ricette vengono volutamente stravolte in spregio alla “tradizione”. Questo, nella cucina italiana può spaziare dallo spezzare o triturare gli spaghetti ad altre improbabili preparazioni o condimenti come il ketchup sulla pasta all’amatriciana o all’interno della lasagna.
L’ambito si può estendere in modo indefinito, dal momento che è sufficiente colpire argomenti sensibili in grado di richiamare reazioni scomposte con un dispendio limitato di tempo e creatività. La crescita del fenomeno del ragebaiting è correlata con la monetizzazione dei contenuti da parte dei social network ma non è l’unico scopo che persegue. Infatti, può essere uno strumento particolarmente utile per rendere virali alcuni contenuti in modo analogo rispetto al clickbaiting.
Oltre il clickbaiting
Nel clickbaiting la leva comunemente impiegata è un titolo o un’immagine (o un’anteprima video fornita dalla copertina) costruiti allo scopo di invogliare l’utente a visualizzare il contenuto per intero, interagirci o ricondividerlo. Si tratta di una manipolazione che il più delle volte impiega un contenuto allettante, mira a rafforzare il convincimento rispetto a un’idea o altrimenti presenta un’indignazione o una rabbia che sono condivise con l’autore del contenuto.
Il ragebaiting consiste invece in una manipolazione atta a provocare indignazione o rabbia contro l’autore del contenuto. E gioca sulla reazione istintiva, nella critica che comunque offre un’interazione (commento, reazione, ricondivisione) che verrà comunque pesata e valorizzata dall’algoritmo del social network.
Dunque si tratta di strategie differenti nel metodo, ma che hanno lo stesso obiettivo, ossia aumentare l’engagement e alimentare un feed. I costi sono confrontabili, ma un contenuto sgradevole è in grado di attirare molta più attenzione rispetto ad un contenuto gradevole. Fattore psicologico da non sottovalutare, dal momento che il maggiore senso di allerta di fronte a ciò che percepiamo come negativo esprime la nostra capacità di reazione ad un pericolo. Si tratta di un impulso ineliminabile, che al più può essere contenuto razionalizzato.
Inoltre, è stata l’evoluzione stessa dei social network che favorisce il fenomeno del ragebaiting.
L’effetto bolla
Gli algoritmi di feed impattano fortemente sulla polarizzazione, promuovendo le interazioni e presentando di conseguenza contenuti che possano mantenere l’utente quanto più possibile attivo all’interno della piattaforma. Con il risultato di creare una filter bubble[1], che offre una maggiore personalizzazione dell’esperienza dell’utente al costo dell’isolamento all’interno di una bolla informativa in cui tutto ciò che è in contrasto con le proprie preferenze rilevate dagli algoritmi viene ridotto o, finanche, escluso.
L’effetto bolla rafforza così il bias cognitivo dell’utente, ma aumenta anche la sua intolleranza nei confronti di contenuti sgradevoli in quanto costituiscono una vera e propria invasione del proprio ambiente digitale così artatamente confortevole. Ed è proprio questo senso di disturbo a richiamare una reazione istintiva che rende il ragebaiting particolarmente efficace
Le dinamiche di comportamento di gruppi o cluster di utenti sono infatti maggiormente prevedibili e manipolabili, grazie alla presunta – e invero mai dimostrata – neutralità degli algoritmi. È possibile così preparare un’esca adeguata ed entrare così all’interno di alcune bolle per giovare delle conseguenti dinamiche tecnologiche e sociali che vengono innescate.
Molti social presentano l’opzione di nascondere e segnalare contenuti non graditi in modo tale da “ripulire” il proprio feed. O quella di bloccare un utente. Ma la partita del ragebait è giocata sulla compulsione di rispondere, dimenticandosi il vecchio caveat dell’Internet: Do not feed the troll[2]. Ovverosia: astenersi dal reagire e non offrire il proprio tempo a chi si pone in maniera volutamente provocatoria.
Il presupposto è però che l’utente sappia riconoscere l’esca o il bait, di qualsiasi natura possa essere. Questo può avvenire solo con un’educazione ad una corretta postura nell’approccio ai social, che tenga conto della persona in quanto tale e non limitatamente alla fruizione di un ambiente o di un servizio digitale.
L’esigenza di “rieducazione” al digitale
Dal momento che l’evoluzione della persona transita inevitabilmente anche per la sua attività online e social, è necessario disporre di un’educazione adeguata così da essere in grado di affrontare ogni possibile impiego distorto degli strumenti. Comprendere le dinamiche tecnologiche e umane e la loro interrelazione in un contesto mutevole è indispensabile, ma richiede un esercizio del pensiero laterale e di dubitare di ogni comfort zone. Soprattutto quando si presenta con termini e condizioni d’uso cui soggiacere o attraverso l’espediente salvifico di una norma che plasmerà il mondo, riducendoci a meri “utenti” o “consumatori” del digitale.
L’esigenza da perseguire è piuttosto quella di comprendere tanto le tecnologie quanto le dinamiche umane. Dal momento che fanno riferimento ad un contesto che, per sua natura, è mutevole ed imprevedibile, si tratta di un’opera di continua rieducazione al digitale.
Contrariamente il futuro vedrà formalmente l’umano al centro, ma più altro come “anello debole” o “vittima” nelle cronache, e nei social come asset per i gestori della piattaforma, quale mero elemento di una qualche strategia di engagement.
[1] Termine risalente a una definizione fornita nel 2011 da Eli Pariser nel saggio “The Filter Bubble: What the Internet Is Hiding from You”.
[2] Non alimentare il troll. Il troll è un utente che interagisce con l’esclusivo scopo di suscitare disturbo e provocare all’interno di una comunità online.