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Quando i dati rubati diventano carburante per intelligenze artificiali ostili

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E l’indipendenza digitale è sottovalutata

Un recente attacco informatico a un fornitore di una grande utility energetica ha compromesso dati sensibili di migliaia di clienti: IBAN, informazioni contrattuali, indirizzi, codici fiscali. L’azienda ha allertato i clienti sui rischi di phishing.

Ma la vera domanda è: cosa accade quando quei dati finiscono nelle mani di agenti AI sofisticati?

Non parliamo più di truffatori che leggono manualmente una lista.

Parliamo di sistemi di intelligenza artificiale che analizzano, correlano e trasformano in armi milioni di record in pochi secondi.

Quei dati possono essere correlati con altre fughe per costruire profili psicografici dettagliati, utilizzati per campagne di manipolazione che vanno oltre la truffa economica, processati da agenti AI autonomi che orchestrano attacchi multi-fase adattandosi in tempo reale.

E soprattutto: quei dati compromessi non “scadono”. Un IBAN rubato oggi potrebbe essere usato tra tre anni da un’AI per costruire profili finanziari completi. Il danno non è nel momento del breach, è nel potenziale di sfruttamento permanente nell’era dell’analisi AI.

L’illusione del perimetro nell’ecosistema interconnesso

L’attacco non ha colpito direttamente l’azienda, ma il suo fornitore.

Eppure, chi paga il prezzo reputazionale? Chi rischia sanzioni dal Garante o di altre autorità?

E soprattutto: che tranquillità avrà il cliente sull’uso dei suoi dati?

Questo scenario rivela una verità che le organizzazioni faticano ad accettare: nell’era digitale, ogni fornitore, ogni partner, ogni nodo della supply chain rappresenta un potenziale vettore d’attacco – ora orchestrabile da AI con una sofisticazione e scala prima impensabili.

La cybersecurity delegata è una contraddizione.

Si può delegare l’esecuzione tecnica, mai la responsabilità strategica. E nell’era dell’AI, questa responsabilità si estende indefinitamente nel futuro.

Il problema è culturale, non tecnologico

Possiamo installare i firewall più sofisticati, implementare sistemi di detection all’avanguardia, adottare framework di zero trust perfetti. Ma se il CDA non comprende veramente cosa significa “rischio ecosistemico AI-driven”, se il procurement valuta i fornitori solo su costo e qualità, se ogni dipendente non ha metabolizzato che ogni dato condiviso oggi può essere trasformato in arma domani, stiamo costruendo muri sempre più alti lasciando tutte le porte spalancate.

Ecco l’elefante nella stanza: ma un’azienda di cybersecurity vende cultura organizzativa?

Vendono tutto ciò che è utile – prodotti, servizi, corsi di addestramento all’uso, consulenze tecniche, certificazioni – ma si rivolgono a coloro che hanno ricevuto la delega dall’alto o agli uffici acquisti.

Ma la cultura organizzativa non si compra come prodotto a scaffale.

La cultura si costruisce attraverso educazione, consapevolezza, trasformazione dei modelli mentali per essere adeguati al presente.

Il paradosso: mentre le aziende investono milioni in soluzioni tecnologiche, il vero punto di vulnerabilità rimane invariato – la mancanza di una cultura organizzativa che comprenda cosa significa operare in un ecosistema digitale interconnesso nell’era AI.

Serve un cambiamento culturale dall’alto: nei Consigli di Amministrazione che devono comprendere che la cybersecurity è governance strategica di sopravvivenza; nel management che deve metabolizzare che ogni decisione di procurement è decisione di cybersecurity; nelle funzioni operative che devono sviluppare “paranoia costruttiva” senza paralizzarsi.

Questa trasformazione non si ottiene con un corso di formazione.

Richiede approccio strutturato, continuativo, multidisciplinare che combini governance, diritto, tecnologia e management. Richiede capacità di tradurre complessità tecnologica in decisioni strategiche comprensibili e costruire autonomia decisionale invece di dipendenza da consulenti.

Chi educa gli educatori?

Le organizzazioni affrontano dilemmi che richiedono prima trasformazione culturale: come si costruisce cultura della cybersecurity quando i vertici non hanno categorie mentali per comprendere la portata sistemica della minaccia AI?

Come si trasforma il procurement da funzione transazionale a presidio strategico? Come si costruisce “paranoia costruttiva” senza paralizzare l’organizzazione?

La risposta non può venire da chi vende tecnologia.

Richiede un approccio di accompagnamento ed educazione ai cambiamenti in atto, anche per chi, ricoprendo funzioni apicali, pensa che il tema non lo tocchi, ma in realtà non è così, quello che solo istituzioni con missione educativa, come gli spin-off universitari, possono fornire con rigore metodologico della ricerca e indipendenza da logiche meramente commerciali, ma logiche che trasformano l’innovazione in valore economico a sostegno di chi fa innovazione e come vantaggio per chi la sa utilizzare per mantenere la continuità della propria impresa.

Un approccio educativo, ma anche di confronto e di dialogo.

Per questo motivo abbiamo creato un momento di incontro: IBE2025 riunisce leader aziendali ed esperti per affrontare queste sfide da prospettiva culturale ed educativa, non commerciale. Non un evento per vendere prodotti, ma uno spazio di costruzione collettiva di cultura e autonomia decisionale.

Perché nell’ecosistema interconnesso dell’era AI, la cybersecurity è prima di tutto questione culturale che richiede educazione, non prodotti. E l’educazione richiede chi la insegna per missione, non per profitto.

Mentre leggiamo, da qualche parte un agente AI sta analizzando dati rubati, imparando, correlando, pianificando. E domani sarà più intelligente di oggi.

La domanda non è più se possiamo permetterci di investire in cultura della cybersecurity. La domanda è: quanto tempo abbiamo prima che sia troppo tardi?

Scopri di più su IBE2025

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