LA SENTENZA

Privacy, Consulta: ‘Online non tutti gli stipendi dei manager Pa’. Plauso del Garante Soro: ‘Il Parlamento si adegui’

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Sentenza della Corte Costituzionale: ‘Sproporzionato applicare l’obbligo di pubblicare online i dati su reddito e patrimonio per tutti i 140mila manager della Pa. Onere solo per gli apicali’. Il Garante Privacy: ‘Ora il legislatore segua l'indirizzo tracciato dalla Corte’.

La sentenza 20/2019 della Corte costituzionale ha fatto cadere l’obbligo di pubblicare online i dati personali sul reddito e sul patrimonio dei 140mila dirigenti pubblici diversi da quelli che ricoprono incarichi apicali. “La sentenza indica con nettezza un percorso virtuoso di bilanciamento tra la protezione dei dati personali e gli altri interessi costituzionalmente rilevanti, che alla prima possano contrapporsi nell’ambito delle politiche pubbliche”. È il plauso del Garante per la privacy, Antonello Soro, alla pronuncia della Consulta.

La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo la norma (l’art.14 comma 1 bis del dlgs n.33/2013 così come modificato dal dlgs 97/2016) che pone l’obbligo di pubblicare sui siti istituzionali i dati relativi ai compensi percepiti dai manager della Pubblica amministrazione per lo svolgimento dell’incarico e dei dati patrimoniali (redditi ricavabili dalle dichiarazioni al Fisco, da diritti reali su beni immobili e mobili registrati, da azioni e quote di partecipazione in società). Una volta online i dati  possono essere indicizzati e rintracciati sul web dai motori di ricerca. La Corte ha ritenuto irragionevole il bilanciamento operato dalla legge tra due diritti: quello alla riservatezza dei dati personali, inteso come diritto a controllare la circolazione delle informazioni riferite alla propria persona, e quello dei cittadini al libero accesso ai dati e alle informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni. Dati e informazioni, ha osservato la Consulta, “che non necessariamente risultano in diretta connessione con l’espletamento dell’incarico affidato”in quanto “offrono un’analitica rappresentazione della situazione economica personale dei soggetti interessati e dei loro più stretti familiari, senza che a giustificazione di questi obblighi di trasparenza possa essere invocata, come invece per i titolari di incarichi politici, la necessità o l’opportunità di rendere conto ai cittadini di ogni aspetto della propria condizione economica e sociale, allo scopo di mantenere saldo, durante l’espletamento del mandato, il rapporto di fiducia che alimenta il consenso popolare”.

Per questi motivi, secondo i giudici della Consulta, la norma è illegittima perché nell’ampliare l’obbligo a tutti i manager della Pa ha violato il principio di proporzionalità, cardine della tutela dei dati personali e presidiato dall’articolo 3 della Costituzione.

Pur riconoscendo che gli obblighi in questione sono funzionali all’obiettivo della trasparenza, e in particolare alla lotta alla corruzione nella pubblica amministrazione, la Corte ha infatti ritenuto che tra le diverse misure appropriate non è stata prescelta, come richiesto dal principio di proporzionalità, quella che meno sacrifica i diritti a confronto.

“Il legislatore spesso, anche in queste settimane”, ha concluso il Garante Soro, “ha opposto una certa insofferenza al nostro richiamo al rispetto del principio di proporzionalità che deve governare il bilanciamento tra diritti, libertà e altri beni giuridici primari. Sarebbe bene se, in futuro, si facesse ricorso a un supplemento di prudenza, seguendo l’indirizzo tracciato dalla Corte, nel segno del principio di ragionevolezza”.