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Primavere arabe. Un bilancio a 10 anni di distanza

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A distanza di 10 anni, la Primavera araba può considerarsi come un fallimento del processo di democratizzazione?

Quando il venditore ambulante di verdura Mohamed Bouazizi, esasperato dalle vessazioni della polizia e ridotto sul lastrico a causa della confisca dei suoi strumenti di lavoro, si diede fuoco a Sidi Bouzid, in Tunisia, il 17 dicembre 2010 scatenò un’ondata di rivolte in tutto il mondo arabo volte a innescare una svolta democratica e a spazzare via le élite politiche corrotte ed autoritarie.

In Tunisia, la rivoluzione dei gelsomini portò alla cacciata del presidente Zine El Abidine Ben Ali, in carica dal 1987; in Egitto, le proteste dei giovani di piazza Tahrir portarono alle dimissioni del Presidente Hosni Mubarak; in Libia e in Yemen le proteste finirono per rovesciare i regimi di Muammar el-Qaddafi e di Ali Abdullah Saleh, mentre in Siria, il presidente Bashar al-Assad riuscì a mantenere il potere.

Yemen, Libia, Egitto, Siria

Tuttavia, a distanza di dieci anni, si può dire che, ad eccezione del caso tunisino, le grandi speranze democratiche che animavano quelle radiose giornate siano state in gran parte tradite. La Primavera si è dapprima trasformata in autunno e, in alcuni casi, in lunghi inverni.

La “rivoluzione del caffè” nello Yemen si è rapidamente evoluta in una guerra civile tra il governo centrale, vicino agli Stati Uniti, e i ribelli sciiti Houthi sostenuti dall’Iran. Le dimissioni di Saleh, a seguito di un grave attentato, e il passaggio dei poteri al suo vice Hadi non hanno prodotto nessun beneficio per il popolo yemenita. Al contrario, lo Yemen è diventato teatro di una sanguinosa guerra civile in cui, oltre ad attori locali, si sono inseriti, scontrandosi in modo violento, l’Arabia Saudita e l’Iran con conseguenze pesantissime punto di vista umanitario. 

Una situazione simile si è verificata anche in Libia. Dal 2011, il paese è stato dilaniato dai combattimenti tra milizie armate e tribù locali che hanno portato alla spaccatura del Paese in due: da una parte il governo di accordo nazionale con sede a Tripoli, guidato da Al Sarraj con l’appoggio onusiano; dall’altra, il governo di Tobruk legato alle forze del generale Haftar e sostenuto da una varietà di attori esterni, tra cui Egitto, Russia ed Emirati Arabi Uniti.

In Egitto, dopo l’uscita di scena di Mubarak e la vittoria alle elezioni presidenziali del 2012 di Mohamed Morsi, candidato dei Fratelli Musulmani, a distanza di un anno si è avuta una nuova insurrezione popolare e un ritorno al passato. Il colpo di Stato dei militari guidati dal maresciallo Abdel Fattah el-Sisi ha spodestato il Presidente eletto e installato un regime ancora più repressivo di quello di Mubarak.

Infine, la situazione più grave si è registrata in Siria. Le proteste del 2011 per chiedere riforme democratiche hanno scatenato durissime reazioni da parte del Presidente Bashar Al Assad, raggiungendo il culmine nel 2013 con l’utilizzo di armi chimiche contro la popolazione. 

Nel corso del tempo poi la guerra in Siria si è complicata notevolmente, assumendo le caratteristiche di una guerra per procura (proxy war) con l’ingresso di una serie di attori locali, regionali ed internazionali: da un lato la Russia, l’Iran e il gruppo libanese degli Hezbollah, a sostegno di Assad; dall’altro lato, i paesi sunniti, ossia Arabia Saudita, Qatar e Turchia a sostegno delle fazioni ribelli. 

Tutta la situazione in Siria è stata complicata dal ruolo sempre più importante assunto sia dall’ISIS che dai curdi, questi ultimi appoggiati dagli Stati Uniti. Oggi, la leadership di Assad non è più in discussione, ma la pace in Siria sembra essere una prospettiva ancora lontana. Nel frattempo i costi per la popolazione sono stati enormi. Secondo le cifre fornite dall’UNHRC, infatti, la guerra in Siria ha provocato 384 mila morti e intorno a 11 milioni di profughi.

Conseguenze

Non è facile individuare le responsabilità di quanto avvenuto nel mondo arabo nell’ultimo decennio. Tuttavia, molti individuano nell’idealismo, nel multilateralismo e nel leading from behind portato avanti dalla presidenza Obama, e definito dallo stesso Presidente come smarter kind of American leadership, un elemento che ha contribuito, seppur involontariamente, alla destabilizzazione del mondo arabo. Infatti, la politica di assecondamento delle rivolte, senza prevedere però delle valide alternative di governo, soprattutto nel caso libico, l’abbandono di uomini legati all’occidente come Ben Alì e Mubarak, forse, con l’intenzione di gestire il processo democratico che ne sarebbe scaturito e l’incoerenza nella vicenda siriana hanno creato sfiducia nei partner regionali, in particolare Israele, lasciando un enorme vuoto di potere a favore di Russia, Turchia e, ora, anche della Cina. A farne le spese è stata soprattutto l’Europa la cui stabilità interna è stata messa a dura prova dalla gestione della crisi umanitaria seguita agli sconvolgimenti in nord Africa e nel mondo arabo. In questo contesto, i rapporti tra UE e Turchia sono stati visti quasi come un tradimento di quella condizionalità democratica che da sempre ha caratterizzato le relazioni esterne dell’Unione.

L’eredità delle primavere arabe.

L’evoluzione seguita alle rivolte del 2011 sembrerebbe non lasciare spazio a dubbi circa il fallimento e la sostanziale inutilità delle primavere arabe. Ma, a ben vedere, le proteste che nel 2019 hanno portato alla caduta di Omar al Bashir in Sudan e al ritiro della candidatura per un quinto mandato da parte di Abdelaziz Bouteflika in Algeria sono testimonianza di una eredità frutto di un processo che, avviato dieci anni fa, pare essere ancora vivo e pronto a offrire nuovi sviluppi, soprattutto in considerazione dei pesanti effetti economici collegati alla pandemia attuale.