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PMI & Appalti pubblici, serve una politica industriale per ICT e PA (2a Parte)

Massimo Di Virgilio

Tutto quanto abbiamo evidenziato sin qui non basta (PMI & Appalti pubblici, serve una politica industriale per ICT e PA (1a Parte)). Occorre che la questione stia al centro del dibattito del Paese. In una realtà dominata dalla comunicazione (!) non basta presentare delle richieste, ma occorre che queste abbiano visibilità.

Purtroppo per le PMI anche questo passaggio non è agevole. I nostri Media, quelli che contano, le televisioni e i grandi giornali economici e politici, non se ne occupano seriamente. Tutto ciò è la cartina di tornasole che evidenzia quanto i temi di questa nostra trattazione siano lontani anni-luce dal voler essere affrontati radicalmente. Una lontananza siderale che potrebbe indurre a pensare malignamente che i media non siano interessati o che continueranno ad esserlo fino a che non si creeranno le condizioni per suscitare dibattiti da “show business”.

Una rimozione collettiva, frutto di una colpevole disattenzione, che continuerà a confinare il problema di cui stiamo parlando in un mondo sotterraneo, circoscritto nei perimetri aziendali e in quelli personali, lasciando brevi spazi solo per esplosioni drammatiche, per un sol giorno degne di essere raccontate. Come se non fosse sufficientemente critica la situazione in cui versano la maggior parte delle aziende italiane operanti nel mondo ICT!

Una presenza quella italiana in questo vasto scenario, nell’hardware, nel software di base e nella vastissima area delle applicazioni di maggiore diffusione mondiale, oltre che nei servizi a valore aggiunto, assolutamente non significativa.

Viceversa, l’Italia è terreno di conquista di aziende straniere che, sia detto con chiarezza, non usurpano nulla, visto che il demerito è tutto nostro. Per giunta, come se non bastasse, la situazione tende a peggiorare rispetto al passato, che già aveva dato luogo alla sparizione anche di soggetti di grandissima rilevanza e di assoluta caratura, sia tecnologica sia progettuale.

Gli effetti negativi quindi non riguardano solo le piccole imprese ma anche le grandi. Abbiamo purtroppo perso molte grandi imprese, e questo è un gravissimo problema sia per l’Italia sia per le PMI italiane. Esse non vivono, infatti, il rapporto con le grandi in termini conflittuali, anzi nutrono un grandissimo rispetto, assolutamente consapevoli della grande importanza che per la loro crescita riveste il rapporto con chi ha maggiore cultura professionale, esperienza manageriale e forza imprenditoriale. Pregi che sono certamente superiori ai difetti.

L’auspicio è che si possa trovare insieme un punto di possibile equilibrio di questo ecosistema per creare una generale condizione di sviluppo per tutti. Anche perché le PMI, costituendo un universo molecolare, come lo ebbe a definire il Censis, pur con le tante contraddizioni e difficoltà, rappresenta una trave portante dell’economia italiana:

all’interno delle quali sta la galassia di quelle operanti nel settore ICT che, tra luci ed ombre, stazionano complessivamente ad un livello di pericolosa criticità.

“Un tessuto di piccole e medie imprese che sconta molti fattori negativi, quali sovente la carenza di competenze manageriali, la limitata capitalizzazione e liquidità finanziaria, ulteriormente peggiorata dall’insufficiente supporto del sistema bancario e molto spesso la mancanza di esperienza internazionale” [2].

L’incapacità delle PMI di saper dar luogo a consorzi o reti di imprese consistenti ed efficienti, a causa della loro frammentazione eccessiva e della antistorica natura individualista, impedisce di considerarle soggetti adeguati per assumere ruoli che vadano al di là di – mandante – negli appalti.

Verità scolpite nella pietra che non lasciano scampo alle PMI. L’unica strada che esse hanno, con molto realismo e onestà intellettuale, per uscire dall’angolo, sta nella capacità di fare una profonda autocritica, spazzando via inutili luoghi comuni e chiarendo in maniera perentoria alcune questioni cruciali:

A questo proposito occorre segnalare uno studio[3] molto interessante dei prof. Pellegrino e Zingales che usa, a proposito dello scenario nel quale ci troviamo, una affermazione sintetica lapidaria di cruda durezza:

The Italian disease has a name: cronyism”,

e aggiungono: “La produttività italiana è crollata per l’incapacità di trarre vantaggio dalla Rivoluzione ICT, partita a metà degli anni ’90. Questa incapacità di cogliere con prontezza il treno dell’innovazione è correlata ad una situazione ambientale fatta di corruzione e di scarsa formazione manageriale”. La congettura è che “il sistema – amicale – esistente scoraggi la diffusione e l’adozione di innovazioni –disruptive-. “L’Italia è vittima di un ritardo culturale della sua classe manageriale”[4], che non viene selezionata con criteri meritocratici ma per “familismo[5].

Un’altra ipotesi per spiegare la riduzione della produttività è che le imprese italiane, invece di investire in produttività, migliorando l’adozione di nuove tecnologie, hanno preferito acquisire a buon mercato, lavoro flessibile. Situazione aggravata dalla vecchiaia dei manager italiani, che ha ostacolato la capacità delle imprese di adottare nuove tecnologie[6].

A ciò si aggiunge un’ulteriore notazione che non fa che aggravare la situazione: le aziende ICT, che dovrebbero essere uno degli agenti primari di questa trasformazione, hanno fallito sia verso l’esterno, nel loro compito primario di evangelizzazione dei Clienti di destinazione, sia verso l’interno, nel proprio ambito, non praticando un modello competitivo puro, ma costruendo o subendo una competizione arcaica e “tribale”.

Dobbiamo accettare la dura legge della realtà: durante il periodo 1995-2011 la produttività per ora lavorata tra le nazioni sviluppate, vede come vero ritardatario l’Italia. Siamo il Paese che ha perso due decenni, non ostante l’assenza per noi, rispetto agli altri Paesi in questo medesimo periodo, di gravi crisi finanziarie, di deflazione e di tassi d’interesse alti e instabili, di politiche monetarie rigide, di politiche fiscali restrittive, di instabilità politiche; anzi, siamo il Paese che ha goduto della più lunga durata governativa del suo intero periodo post-seconda guerra mondiale[7].

D’altronde la drammaticità della situazione dell’ICT italiano di quest’ultimo decennio non mi sembra che faccia sconti ad alcuno. Il nostro Paese arretra, l’occupazione diminuisce, molte imprese falliscono. Le PMI, dal canto loro, stanno rischiando di uscire forzatamente di scena, quasi tutte soffrono e lottano con grandissima difficoltà per sopravvivere, solo pochissime riescono ad evolvere fino a raggiungere dimensioni significative e qualità di assoluto rilievo. Non mi sembra che ci stia realmente guadagnando nessuno, né i lavoratori, né le PMI, né le GI, né la PA, né tanto meno l’Italia.

Alla luce di tutte le precedenti considerazioni credo si possa dire che le cause delle nostre difficoltà dipendono dalla nostra classe dirigente, cioè da tutti noi, e sarà solo una nostra mutazione che potrà tirarci fuori da questa recessione.

Oggi, come CDTI di Roma, torniamo ad INSISTERE, promettendo che continueremo a farlo, fino a che non avremo raggiunto gli obiettivi che ci siamo prefissati. Non possiamo ritenerci soddisfatti solo per le dichiarazioni d’intento cui abbiamo fatto cenno, perché aspettiamo la loro concreta applicazione con il recepimento anche delle richieste ancora sospese, altrettanto degne e parimenti indispensabili rispetto alle prime che già hanno trovato accoglienza. INSISTIAMO perché continuiamo ad essere preoccupati, proponendo che complessivamente tutti gli attori in campo facciano la loro parte.

Sappiamo che non ci sono ricette semplici, ma abbiamo imparato nel tempo a guardare a chi ha raggiunto risultati migliori di noi. Certamente gli USA. e la Germania sono più competitivi ed efficienti. Bene, partiamo da loro. Concentriamoci nello specifico sugli appalti. Gli Stati Uniti dal 1954 hanno varato lo Small Business Act (S.B.A.), quello vero, e hanno ottenuto risultati assolutamente eccellenti.

I tedeschi da qualche tempo hanno cominciato a segmentare le gare. Sia ben chiaro, nessuno ha la presunzione di pensare che la ricetta sia così semplice e che basti copiare gli Stati Uniti e la Germania, adottando soltanto le specifiche iniziative citate per crescere, ma siamo però convinti che bisogna cambiare rotta e subito. L’UE, dopo aver partorito lo S.B.A. europeo citato, ha aggiunto altre “direttive” per sollecitare i Governi locali a fare molta attenzione alla politica della domanda pubblica, sollecitandoli attraverso nuove leggi ad attivare anche una “moral suasion” per sostenere con molta decisione la partecipazione delle PMI negli appalti pubblici.

Ricorrendo alla usatissima metafora adottata tanti anni fa da M.Vitale, “i treni continuano a passare”, possiamo aggiungere, senza potercene glorificare, che noi continuiamo a perderli. L’ultimo è passato in coincidenza con l’ingresso nell’euro e l’abbiamo mancato. Ma siamo fortunati, poiché si profila una nuova combinazione praticamente “magica” rappresentata dal riequilibrio in corso tra euro e dollaro, il dimezzamento del costo del petrolio, il quantitative easing della BCE, la riduzione del costo del denaro, l’expo 2015, il giubileo. Se non è questo il momento per cambiare, allora sarà nostra la responsabilità di fallire.

Per tutte queste ragioni riteniamo che sia giunto il momento di sottoscrivere tra i diversi attori in campo, poiché non credo che possa bastare una pura enunciazione verbale, in cui ciascuno si impegni a fare la sua parte:

 

PMI & Appalti pubblici, serve una politica industriale per ICT e PA (1a Parte)

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[1] Ibidem (D.Casalino)

[2] Ibidem (D.Casalino)

[3] B.Pellegrino Un. Of California e L.Zingales Harvard Un. Sept.14 (Diagnosing the Italian Disease)

[4] ibidem (Pellegrino, Zingales)

[5] ibidem (Pellegrino, Zingales)

[6] Daveri e Parisi (2010)

[7] ibidem (Daveri, Parisi)

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