La ricerca

Plastica mutante, scoperto sull’isola portoghese di Madeira un nuovo tipo di inquinamento

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Non solo detriti e microplastiche, l’Oceano ha talmente tanta plastica in sospensione (ma anche in profondità) che sulle coste rocciose dell’Isola portoghese al largo del Marocco gli studiosi hanno scoperto un tipo di inquinamento nuovo, un incrostamento plastico mai visto prima per una nuova crisi ambientale.

Di plastica in mare ne buttiamo tanta, tantissima. Solo l’Italia produce 4 milioni di tonnellate di rifiuti l’anno, di cui l’80% proviene dall’industria degli imballaggi, riversando in natura circa 500 mila tonnellate di materiali di scarto plastici.

Secondo uno studio del WWF, ogni minuto finiscono nel Mediterraneo l’equivalente di 33 mila bottigliette di plastica. È chiaro che i nostri Governi e le stesse amministrazioni locali non hanno la più pallida idea di come gestire il problema.

La popolazione è al corrente della minaccia, ma sembra faccia fatica a comprenderne le dimensioni e a mettere in atto comportamenti virtuosi.
I governi e le comunità locali gestiscono in maniera scorretta il 28% dei propri rifiuti e quelli che sfuggono alla raccolta finiscono in discariche abusive o disperse in natura, con l’alta probabilità di riversarsi poi in fiumi, laghi e mari.
Le aziende del Mediterraneo mettono sul mercato 38 milioni di tonnellate di manufatti in plastica ogni anno, senza coprire però i costi di gestione dei rifiuti eccessivi che contribuiscono a generare. Inoltre, dato il basso costo della plastica vergine, le aziende non investono nel disegno e realizzazione di nuovi prodotti che riutilizzino, riducano e sostituiscano la plastica.

In questo scenario terrificante, anche i cittadini e i turisti fanno la loro parte, producendo oltre 24 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica ogni anno e, molto spesso, non facendo la raccolta differenzia in modo corretto, danneggiando così l’intero sistema di riciclaggio.
Se allarghiamo il problema agli Oceani di tutto il mondo, oggi sappiamo che la plastica “a mollo” supera le 150 milioni di tonnellate.

Una notizia di questi giorni concorre a rendere ancora più inquietante il panorama. In Portogallo, sull’isola di Madeira, l’ecologo Ignacio Gestoso del Marine and Environmental Sciences Centre, ha fatto una scoperta a dir poco agghiacciante: la plastica muta e crea una nuova tipologia di inquinamento ambientale, molto più insidioso di quello che già conoscevamo.

I dati preliminari dello studio sono stati pubblicati in un articolo su ScienceDirect (“Plasticrusts: A new potential threat in the Anthropocene’s rocky shores”). La plastica in mare si sgretola in tanti piccoli pezzi di varia grandezza. Prima delle famigerate microplastiche, ci sono detriti molto piccoli in sospensione che una volta accumulati sulle rocce in riva al mare, sulle coste, tendono a trasformarsi in una specie di “crosta plastica” in grado di ricoprire progressivamente i materiali su cui si deposita.

È stata chiamata “plasticrust” e la sua pericolosità è ancora al vaglio dei ricercatori, ma quello che appare chiaro è che questo tipo di inquinamento riuscirà ad entrare con molta facilità nella catena alimentare.
Tutti i piccoli e piccolissimi organismi che abitano la costa tenderanno a nutrirsi di “plasticrust e a loro volta saranno mangiati da altri organismi marini, mettendo così rapidamente e fatalmente in circolo detriti plastici e microplastiche (queste possono facilmente fondersi con il “plasticrust”).

Secondo l’articolo scientifico, il fenomeno era noto agli studiosi dal 2016 e le incrostazioni colorate sulle rocce dell’isola vulcanica nei mesi hanno mostrato una tendenza a mutare aspetto e colore, nonché ad aumentare la loro estensione.
Si va da piccoli tasselli colorati, fino alla copertura del 10% circa dell’intera superficie rocciosa.
La capacità di questa plastica mutante (nel senso di “mutazioni” indotte che avvengono quando un organismo è esposto deliberatamente o casualmente ad agenti fisici o chimici) di integrarsi nella catena alimentare locale e potenzialmente di un’area oceanica più vasta, sta nel fatto che va a sostituire rapidamente le naturali incrostazioni biologiche di cui si nutrono organismi come le lumache di mare, diversi crostacei e i molluschi stessi (che invece della roccia, si troveranno ad ancorarsi sulla plastica e a nutrirsi di essa in alcuni casi).

Il Rapporto CIEL di quest’anno ha evidenziato senza mezzi termini quanto le materie plastiche rappresentino differenti rischi per la salute umana in ogni fase del loro ciclo di vita: dalle sostanze chimiche pericolose rilasciate durante l’estrazione del petrolio e la produzione delle materie prime all’esposizione agli additivi chimici rilasciati durante l’utilizzo delle materie plastiche, per terminare con l’inquinamento dell’ambiente e del cibo che può derivare dal rilascio di plastica nell’ambiente.
Le microplastiche, come frammenti e fibre, a causa delle loro piccole dimensioni, possono entrare nel corpo umano attraverso il contatto, l’ingestione o l’inalazione, penetrare nei tessuti e nelle cellule generando impatti sull’uomo, anche a causa del rilascio di sostanze chimiche pericolose.
Altro problema sollevato dallo studio è che “incertezze e lacune conoscitive non consentono di avere un quadro dettagliato circa gli impatti sulla salute umana”, impedendo di fatto a consumatori, comunità e istituzioni di prendere decisioni consapevoli su questo tema.
Quest’ultimo punto appare particolarmente critico e non deve ingannare il lettore: un conto è il ragionamento di un ricercatore, che in quanto scienziato deve arrivare ad avere una misura più o meno dettagliata del problema; un altro conto è il cittadino, che ormai sa bene che la plastica è dannosa e pericolosissima per la salute, nostra e dell’ambiente, e non deve aspettare le misurazioni precise del fenomeno.

Un Report della Banca Mondiale non lascia scampo: entro i prossimi 30 anni, in tutto il mondo, la produzione di rifiuti di plastica aumenterà del 70%. Come ha annunciato l’ENEA, se non cambiamo rotta immediatamente, entro il 2050 in mare avremo più plastica che pesci.
Già oggi, ogni volta che ci sediamo a tavola per pranzo o cena, mediamente ingoiamo quasi 69 mila fibre di plastica, di cui non abbiamo ancora un’idea precisa su tossicità e impatti biologico.
Secondo uno studio dell’Università di Newcastle in Australia: ogni settimana ingeriamo 5 grammi di microplastiche (più o meno le dimensioni di una carta di credito).