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Plastica biodegradabile, un falso mito: buste intatte dopo 3 anni in mare o sottoterra

Un paio di anni fa i ricercatori dell’UNEP (United Nations Environment Programme), l’agenzia delle Nazioni Unite per l’ambiente, avevano denunciato la pericolosità delle buste di plastica biodegradabili: come tutte le altre minacciano l’ambiente, perché si degradano molto lentamente e solo in certe condizioni, soprattutto in mare.

Oggi il quotidiano britannico The Guardian ha pubblicato una nuova ricerca della International Marine Litter Research Unit, University of Plymouth, dedicata allo scarso livello di biodegradabilità della plastica comune: “sotterrate o messe in acqua, dopo tre anni le buste di plastica biodegradabile sono ancora intatte”. Non solo, “rimangono integre a tal punto che possono essere ancora usate, resistendo bene al peso”.

Due i tipi di plastica cosiddetta green usati nella ricerca e messi a confronto con la plastica tradizionale: quella biodegradabile e quella compostabile. Sottoposte all’azione di terra, acqua e aria, solo la busta di plastica compostabile ha dato risultati positivi: dopo tre mesi si era degradata.
Dopo tre anni, invece, il sacchetto biodegradabile ancora era intatto e pronto all’uso.

Oltre al risultato, che certamente ha sorpreso i ricercatori, la considerazione principale è stata doppia: i danni ambientali purtroppo non si riparano seguendo questa strada, ma altro problema altrettanto grave è il tradimento della fiducia dei consumatori, che acquistando ed usando sacchetti biodegradabili credono di esercitare un impatto ambientale molto minore.
Molte di queste buste, infatti, sono marchiate con un messaggio ambiguo rivolto proprio al consumatore, di incoraggiamento al loro uso, perché in termini di marketing, tali buste offrono alla natura un livello di riciclo più alto ed efficace: “difendi l’ambiente, usa la plastica biodegradabile”.

D’altronde, la plastica è ancora un enorme criticità ambientale e una vera e propria minaccia all’esistenza dei principali ecosistemi naturali sul pianeta. Secondo lo studio, infatti, solo nel 2010 oltre 98 miliardi di buste di plastica sono state immesse sul mercato europeo e in media ogni anno sono prodotte 100 miliardi di buste di plastica.
Complessivamente, stiamo parlando di quasi 900 miliardi di buste di plastica per il periodo 2010-2019.

In Gran Bretagna, affermano i ricercatori di Plymouth, i 10 supermercati più popolari hanno prodotto 1,1 miliardi di sacchetti di plastica monouso, 1,2 miliardi di sacchetti di plastica per frutta e verdura, 958 milioni di sacchetti di plastica con una vita media di un anno.

Il limite di tali tecnologie, infatti, è proprio nella loro resistenza agli agenti naturali che si occupano della degradazione del prodotto plastica. Servono condizioni particolare affinchè portino a termine il loro compito: tanti microbi, ossigeno, umidità, calore e tempo.
Per quel che riguarda l’inquinamento marino e su terra ferma, “queste buste non presentano nessun tipo di vantaggio immediato rispetto a quelle tradizionali”, ha dichiarato il capo del progetto di ricerca, il professor Richard Thompson, “a questo punto è evidente che il riciclaggio e la biodegradabilità sono ancora due sfide aperte, lontane da una soluzione efficace e univoca. Servono nuovi standard, con percorsi di smaltimento appropriati e ben testati”.

Secondo i dati dello studio UNEP, sopra richiamato, sui rifiuti di plastica finiti in mare: nel 2014, abbiamo gettato negli oceani da 4,8 a 12,7 milioni di tonnellate di plastica, su una produzione mondiale che ha superato i 311 milioni di tonnellate. Ogni chilometro quadrato di mare al mondo ha in media 63.320 particelle di microplastica galleggianti (sotto i 5 mm di diametro), che hanno già intaccato la salute degli ecosistemi marini, di flora e fauna.

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