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Plastica biodegradabile, se ne produrrà fino a 6 milioni di tonnellate entro il 2028. Ma è davvero la soluzione all’inquinamento?

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Si produce a partire da biomasse come mais, patate e altri amidi o scarti dell’agricoltura, quindi tutto naturale, ma non proprio, gli studi pro e contro. Il punto di vista del Consorzio nazionale per il riciclo organico degli imballaggi in plastica biodegradabile e compostabile.

Plastica biodegradabile, che cos’è e come si smaltisce

Il volume di plastica biodegradabile prodotto in tutto il mondo è stimato raggiungere 6,3 milioni di tonnellate entro il 2028, secondo l’associazione European Bioplastics, ma entro il 2050 la tendenza è verso un incremento deciso, con una produzione che oscillerebbe tra 92 e 357 milioni di tonnellate a livello globale (stime Project Drawdown).

Una buona notizia, visto che di plastica ottenuta come derivato dal petrolio ne abbiamo fin sopra i capelli. E non è una battuta. Oltre alle discariche legali e abusive, allo sversamento in mare, nei fiumi e nei laghi, i 25 trilioni di microplastiche che ricoprono il pianeta intero e noi stessi, completano il quadro dell’inquinamento da plastica, con le ultime inquietanti scoperte: solo in Europa, sono sversate ogni anno tra 31.000 e 42.000 tonnellate di microplastiche (o da 86 a 710 trilioni di microplastiche) che vanno poi a contaminare il cibo che mangiamo, entrando nel nostro organismo.

Intanto, il consumo di plastica tradizionale nel mondo è quadruplicato negli ultimi 30 anni, soprattutto grazie all’aumento di domanda proveniente dagli Stati emergenti, e la produzione è raddoppiata negli ultimi 20 anni, raggiungendo 460 milioni di tonnellate.

Quando si parla di plastica biodegradabile si fa riferimento a quel prodotto ottenibile a partire da amido di mais, grano, tapioca, patate, fecola di patate o anche scarti vegetali da frutta e verdura.

Sembra quasi la soluzione finale all’inquinamento di cui soffre il pianeta: invece di un tempo lungo secoli o millenni, la plastica biodegradabile si decompone in poche settimane. Il problema, però, è che questo prodotto a base vegetale lo si ritrova praticamente gettato via ovunque e alla fine un impatto ambientale potrebbe averlo.

Emissioni di gas serra e i problemi di compostaggio

Le plastiche biodegradabili in fase di decomposizione rilasciano metano e diossido di carbonio (CO2). In più, se disperse nell’ambiente, anzichè conferite correttamente nel compost, anche le bioplastiche hanno tempi di degradazione molto lunghi, comparabili a quelli di materiali plastici non bio.
Sarà vero?

Il problema è stato sollevato da un esperimento condotto congiuntamente da Consiglio nazionale delle ricerche – coinvolto con l’Istituto dei processi chimico-fisici (Cnr-Ipcf) e l’Istituto di scienze marine (Cnr-Ismar), Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) e Distretto ligure per le tecnologie marine (Dltm), con il supporto di Polizia di Stato – Centro Nautico e Sommozzatori La Spezia (CNeS).

Sulla stessa lunghezza d’onda i risultati di uno studio dello University College di Londra, pubblicato sulla rivista Frontiers in Sustainability, secondo cui la plastica certificata come compostabile non è fatta per essere smaltita nei sistemi di compostaggio domestico: il 60% non si decompone davvero e finisce quindi per inquinare ancora di più orti e giardini dove viene inconsapevolmente riutilizzata.

Non solo, sebbene la maggior parte delle plastiche biodegradabili sia prodotta da biomasse come amidi e residui agricoli, possono anche essere prodotte da combustibili fossili.

La risposta dell’industria italiana della plastica biodegradabile

I due studi sono stati criticati dal Consorzio nazionale per il riciclo organico degli imballaggi in plastica biodegradabile e compostabile, Biorepack. Il primo, prodotto dal CNR-ISMAR, “ha sollevato sin da subito dubbi per la metodologia utilizzata e per i tempi di pubblicazione: il comitato tecnico di Assobioplastiche, al cui interno siedono rappresentanti dello stesso CNR, ha ad esempio evidenziato che i risultati di quello studio sono stati pubblicati dopo appena sei mesi dall’inizio dell’esperimento – tempo che impedirebbe la degradazione a qualsiasi oggetto anche di origine vegetale – e non dopo tre anni come veniva richiesto. Inoltre, non viene data alcuna evidenza sulla misurazione temporale dei risultati e dei rischi ambientali”, si legge in una nota. 

Il secondo, realizzato dall’University College of London, “non è dedicato al compostaggio industriale – processo grazie al quale in Italia il 96% delle bioplastiche viene riciclato – ma al compostaggio domestico, tecnica marginale nel nostro Paese ma diffusa in Inghilterra, dove la raccolta differenziata dell’organico non esiste. Questa ricerca inoltre contiene una grave lacuna, dove dimentica di sottolineare che le bioplastiche compostabili sono certificate per essere compostate in impianti di digestione anaerobica e compostaggio, e non all’interno delle compostiere domestiche. Infine, per effettuare la ricerca, non vengono utilizzati esperti ma cittadini – è definito dagli stessi autori come un esempio di “citizen science” – fornendo loro delle mere indicazioni su come effettuare gli esperimenti nella propria abitazione”, ha fatto sapere il Consorzio.

Diversi sono gli studi che invece sottolineano i vantaggi delle bioplastiche, si legge nella nota: “A mero titolo di esempio, possiamo citare lo studio congiunto delle Università di Madrid e Ancala sulle frazioni estranee presenti nel compost prodotto dagli impianti di trattamento dei rifiuti organici, che ha verificato come in nessun caso, nei campioni, erano presenti residui di bioplastiche compostabile; o quello dell’Università di Salerno che ha verificato la compostabilità in campo dei teli in bioplastica, usati per la pacciamatura del pomodoro, evidenziando l’assoluta dissoluzione degli stessi, senza rilascio di inquinanti, a differenza di quelli in plastica tradizionale e polietilene“.

C’è anche la bioplastica ottenuta da fossili

Da fonte organica o fossile si può ad esempio ottenere iI PBAT, polibutilene adipato tereftalato, un polimero compostabile e biodegradabile utilizzato principalmente nel processo della filmatura. Si stima che in Cina la produzione di PBAT raggiungerà le 7 milioni di tonnellate nel 2025.

Il problema che si vuole sollevare è che se la plastica ottenuta da fossili la vediamo in tutto il suo drammatico impatto ammucchiarsi in mare e su terra, quella biodegradabile potrebbe risultare invisibile in termini di conseguenze ambientali.

Certo la seconda è migliore della prima, ma potrebbe non rappresentare la soluzione al problema inquietante della plastica e del suo inquinamento.

Bisogna riciclare e riutilizzare la plastica

Invece di ridurre il consumo di plastica e di incentivare allo stesso tempo il recupero, riciclo e riuso di questo materiale, si sta procedendo ad una sua sostituzione (in realtà molto lenta) con il paradigma “bio”, aumentando di fatto la sua presenza sul pianeta, e come ogni cosa, non del tutto senza impatto ambientale.

Un rapporto pubblicato dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Oecd) mostra che il consumo di plastica è quadruplicato negli ultimi 30 anni, e solo il 9% viene riciclato.