La Leopardi’s vision

Odiens, il film su Leopardi sbanca al botteghino

di Stefano Balassone |

Il film di Mario Martone su Giacomo Leopardi è il maggiore successo della stagione cinematografica da poco decollata, con 5 milioni di incassi e quasi un milione di spettatori.

#Odiens è una rubrica a cura di Stefano Balassone, autore e produttore televisivo, già consigliere di amministrazione Rai dal 1998 al 2002, in collaborazione con Europa.
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Pubblicato su Odiens, Europa il 10 novembre 2014

Venerdì abbiamo trascurato l’appuntamento con l’indignata satira di Crozza per andare al cinema a vedere Leopardi. E possiamo testimoniare che a fine proiezione, nella affollata saletta (da cento persone, come s’usa ora) del cinema Giulio Cesare a Roma, mentre ancora scorrevano i titoli di coda de’ Il giovane favoloso, nessuno, ma proprio nessuno, si alzava per anticipare la ressa guadagnando l’uscita. Un comportamento inusuale, segno di uno strascico emotivo prolungato.

Un effetto sorprendente, perché il film di Mario Martone, pur seducente per le immagini e la colonna sonora, resta, al fondo, l’esposizione di una filosofia e in particolare della visione leopardiana della condizione umana. Puri pensieri, a volte espressi con i brani delle poesie più studiate. E dunque non lo diresti un film di quelli destinati a trovare il largo pubblico. E invece accade che la “Leopardi’s vision” si trovi ad essere il maggiore successo della stagione cinematografica da poco decollata, con 5 milioni di incassi e quasi un milione di spettatori, più numerosi che per I guardiani della galassia, cui nonni e nipotini accorrono a frotte.

Dove sta il segreto?

Diremmo, nel doppio profilo del Leopardi narrato da Martone. Da un lato il famoso “pessimismo”, che scansa i miti della “felicità” e delle “magnifiche sorti e progressive”, narrando di smarrimenti infiniti, di sabati lieti che preludono a pessime domeniche, di lune indifferenti e taciturne, di ginestre vesuviane, circondate dalla desolazione (nella sala buia pispigliavano qua e là i versi imparati a scuola).

E poi il lato dell’individuo che, nonostante il corpo lo tradisca, assapora la vita: studiando come un matto, poetando, fuggendo dal borgo tranquillo o anche consumando gelati alla crema e aggirandosi fra i calori umani e gli svariati orrori di Napoli. Più che un pessimista, dunque, un “non ottimista”, che rifiuta le illusioni, ma non rinuncia a vivere.

Qui si innesca, secondo l’impressione che ce ne siamo fatta, l’emozione del pubblico in sala che vede razionalizzato e ricondotto a sistema sia il proprio scetticismo (perfino nelle chiacchiere da bar ci vantiamo di essere il popolo più scettico del mondo) sia il proprio gusto per la vita.

Tanto più che, a giudicare da modi, dall’abbigliamento e dai capelli brizzolati o bianchi, la platea che si attardava a metabolizzare l’emozione del film era composta proprio da quelli che, a partire dagli anni Sessanta, di “magnifiche sorti e progressive” hanno fatto grande uso, che ne sono orfani, e che da tempo si sentono un po’ in colpa giacché vivono senza “grandi fini” e con zero speranze.

E così, senza saper bene se compiacersi o disperarsi, andati per vedere Leopardi si ritrovano anch’essi leopardiani in sedicesimo. Almeno nella platea del cinematografo. E siamo curiosi di constatare se al momento della trasmissione in tv (il film è stato prodotto da Carlo degli Esposti per la Rai) la più larga platea televisiva sarà altrettanto leopardiana.

Fermo restando che ogni epoca ha i Leopardi che si può permettere.