proposta di legge

Niente social fino a 15 anni e basta “baby star” online, si sblocca il ddl bipartisan

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La proposta di legge portata avanti da FdI e Pd mira a regolamentare in maniera stringente l’accesso ai social e le sponsorizzazioni commerciali online per chi ha meno di 15 anni.

Il ddl per tutelare i minori dai social

Nel nostro Paese c’è una proposta di legge bipartisan, fortemente voluta da Fratelli d’Italia e il Partito democratico, che ha l’obiettivo di imporre alle piattaforme social la verifica dell’età di chi accede, con il divieto di autorizzazione per chi ha meno di 14 o 15 anni.

L’obiettivo del ddl “Disposizioni per la tutela dei minori nella dimensione digitale“, presentato al Senato da Lavinia Mennuni (FdI) e alla Camera da Marianna Madia (Pd), è “elevare il livello di protezione della salute psico-fisica dei minori rispetto alle conseguenze derivanti dall’utilizzo di servizi di social network online e alle piatta￾forme di condivisione di video“.

Tra i punti chiave, non si potrà dare da soli il consenso al trattamento dei propri dati se non si sono compiuti almeno i 16 anni di età.

Il sistema Ue per controllare l’età di chi accede sui social

Per riconoscere l’età effettiva dell’utente, si sta puntando al sistema del “mini-wallet digitale” europeo, che dovrebbe essere pronto per giugno 2026.
L’Italia è tra i Paesi che per primi sperimenteranno questa soluzione.

Minori e adolescenti non dovrebbero avere a che fare con il mondo dei social media, se non a certe condizioni. In molti lo pensano, ma non tutti sono d’accordo.

Il punto è che il settore, fino ad oggi, non è mai stato regolamentato a dovere e però è ormai chiaro a sufficienza quanto queste piattaforme siano più una minaccia, che una risorsa, per i più piccoli e chiunque abbia meno di 18 anni.

Chi non rispetterà questo limite (l’età definitiva è da stabilire in prossimi passaggi) incorrerà nelle sanzioni del Garante per la protezione dei dati personali.

Basta con il fenomeno “baby influencer”

Non solo, il ddl contiene anche un nuovo regolamento per la gestione del fenomeno dei minori che diventano influencer sul web (o kidfluencer), che troppo assomiglia ad un vero e proprio sfruttamento economico dei più piccoli e per questo è chiamata in causa l’Autorità garante delle comunicazioni (Agcom), che ha varato un codice di condotta su questo.

Su Netflix c’è un documentario dedicato a questo tema, dal titolo “Bad Influence: il lato oscuro dei giovani influencer“, in cui si racconta in che modo questi ragazzini, tra abusi e manipolazione psicologica, fanno (guadagnare) miliardi di dollari sponsorizzando prodotti commerciali online e sui social.

Un’inchiesta sull’argomento baby influencer è stata condotta anche da PresaDiretta di Riccardo Iacona.

La proposta di legge, fino ad ora ferma al senato, ha sbloccato il suo iter legislativo e punta all’approvazione entro i primi mesi del 2026.

Come spiegato da Giacomo Andreoli su Il Messaggero, troppo spesso abbiamo visto minori, in alcuni casi ragazzini, sponsorizzare in video prodotti firmati, come capi d’abbigliamento, creme, trucchi per il viso.

Il fenomeno dello sharenting

Spesso sono proprio i genitori a promuovere le loro piccole star del web, fenomeno che negli Stati Uniti ha preso il nome di “sharenting“.

Con il termine “sharenting” si intende il fenomeno della condivisione online costante da parte dei genitori di contenuti che riguardano i propri figli/e (foto, video, ecografie). Il neologismo deriva dalle parole inglesi “share” (condividere) e “parenting” (genitorialità).

Un report di Save the Children ci ricorda che sono 336.000 circa gli italiani tra i 7 e i 15 anni che hanno avuto esperienze di lavoro, continuative, saltuarie o occasionali, il 6% per la realizzazione di contenuti per social o videogiochi, o ancora per il reselling di sneakers, smartphone e pods per sigarette elettroniche.

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