ilprincipenudo. L’economia della cultura e l’incertezza dei suoi numeri

di Angelo Zaccone Teodosi (Presidente Istituto italiano per l’Industria Culturale - IsICult) |

Da Federculture, Symbola, Confindustria, Dps ed Istat, cifre in libertà per impressionare i ‘policy maker’ e ‘dimostrare’ che la cultura ‘pesa’, e conta. Operazioni autopromozionali che finiscono per celare le miserie dell’industria culturale italiana.

#ilprincipenudo è una rubrica settimanale promossa da Key4biz a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult.
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Parte oggi la nuova rubrica settimanale #ilprincipenudo: ragionamenti eterodossi di politica culturale e economia mediale, a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) per Key4biz.

La politica culturale, quando è a corto di idee, si mette alla ricerca di numeri.

Si cerca di compensare la debolezza del “semiotico” (e il “pensiero debole” della dimensione “politica”) facendo riferimento all'”economico”. Sempre più spesso i politici di professione, ma anche le associazioni di categoria, gli “stakeholder”, invocano l’economia della cultura (e le sue incerte numerologie), nel vano tentativo di dimostrare che la “cultura” conta. Fatturato, imprese, occupazione… soltanto questo, però, sembra “contare”.

È una sorta di deriva economicista del “senso dello Stato”, e quindi della comunità stessa.

Si applica alla cultura, ma anche ad altre attività: gli immigrati, per esempio. La pubblicistica e finanche la letteratura scientifica finisce per considerare la cultura (o l’immigrazione) “importante” perché produce giro d’affari, stimola impresa e occupazione.

E le dimensioni della coesione civile, della inclusione sociale, del benessere immateriale vengono subordinate, come se fossero variabili dipendenti dalla numismatica. Laddove lo Stato latita (e la “comunità” sembra concetto passatista)… l’euro domina!

Una sorta di paradosso mercatista “à la” Tremonti: se è vero che lui sosteneva che con “la cultura non si mangia”, tutti ora a cantar nel coro opposto, ad argomentar numeri che dovrebbero dimostrare che con la “cultura si mangia”, eccome. Anzi che la cultura… non soltanto conta e sfama, ma… impatta, veicola, moltiplica, traina!

Il sempre interessante “rapporto annuale” di Federculture (anomalo sindacato di imprese ed enti non-profit pubblici e privati, presieduto da Roberto Grossi) è giunto alla decima edizione ed è stato presentato pochi giorni fa (26 giugno 2014). Una decina di giorni prima era stato presentata la terza edizione dell’imbrogliato dossier “Io sono Cultura”, curato da Symbola (Fondazione per le Qualità Italiane, presieduta da Ermete Realacci) in partnership con Unioncamere. Alla terza edizione (19 giugno 2014), sono giunti anche gli “Stati Generali della Cultura”, promossi dal quotidiano confindustriale “Il Sole 24 Ore“… E, ancora, certo ci mancavano i numeri del Dps: il Dipartimento del Ministero dello Sviluppo Economico ha presentato (29 maggio 2014) un incerto studio intitolato “I flussi finanziari pubblici nel settore cultura e servizi ricreativi”, realizzato insieme all’Istat.

Numeri, numeri, numeri… Nell’arco di poche settimane, una messe di dati da far paura! Sulla carta. Vien piuttosto da parafrasare la grande Mina: parole, parole, parole…

Queste iniziative – si dirà – sono comunque commendevoli, se consentono di attrarre le luci dei riflettori mediali verso il palcoscenico del disastrato sistema culturale italiano: sottosviluppato, sottodimensionato, sottocapitalizzato…

Naturale però sorge una questione critica: è questo il miglior modo per stimolare la crescita sana e sostenibile del sistema culturale nazionale?! La cultura è importante e “va” sostenuta dallo Stato soltanto perché è importante economicamente?!

Una digressione: qualche anno fa (2010), Google Inc. ha avviato un progetto di ricerca che era in verità un’operazione di comunicazione lobbistica finalizzata a promuovere un’immagine positiva del gruppo a livello internazionale. Ricerca affidata a Boston Consulting Group: un curioso format, elaborato in Usa e declinato a livello “glocal”, che voleva dimostrare quanto internet fosse centrale per lo sviluppo socio-economico delle nazioni. Anche in quel caso, numeri: fatturati, imprese, occupazione… ed i mitici “moltiplicatori”.

Se ricerche (o pseudo-ricerche) di questo tipo sembrano apparentemente utili, temiamo che la sovrabbondanza di iniziative stia producendo fenomeni patologici: la deriva economicista dell’importanza attribuita alla cultura, anzitutto, ma anche un’inflazione di dati e di stime che determina enorme confusione… Insomma, sembra quasi una corsa a chi… la spara più grossa! La cultura “conta” il 3 per cento del prodotto nazionale lordo?! No, 5 per cento! Di più… 10 per cento! Tombola!!!

I produttori più fantasiosi di fuochi d’artificio sono i promotori di Symbola, che hanno sparato cifre impressionanti, mettendo insieme “mele e pere”, ovvero cinema e… pasta, editoria e… merletti. Altro che la statistica del pollo di Trilussa!

Qual è il senso di queste dinamiche circensi?! Celare la nudità del re, stordendo con effetti speciali?! O, più semplicemente, si tratta di iniziative autopromozionali di auto-accredito nella variegata arena del “culturale”? I maligni, per esempio, sostengono che gli “Stati Generali” siano la grancassa del Master che Il Sole 24 Ore promuove in materia d’arte e cultura (la “fee” è di 8.900 euro al netto Iva)…

Queste cifre “ubriacanti”, questi fuochi d’artificio numerici, queste numerologie esplosive, finiscono per celare la vera realtà del sistema culturale italiano, ovvero la sua estrema e penosa miseria: quanta parte dei “miliardi” di euro di “esportazioni” l’anno – “stimati” da Symbola – sono effettivamente riferiti alla cultura in senso specifico (editoria, musica, cinema, fiction tv, videogame…), ovvero alla più diretta produzione di contenuto e senso??? Una quota insignificante, marginale, deprimente: le briciole della pur grande “torta”, dato che la gran parte della “economia culturale” perimetrata da Symbola è rappresentata dalla “produzione di beni e servizi creative driven” (sic). Nel “creative driven” (magica formuletta), ci sono appunto, tra l’altro: mobili… pizzi e merletti… orologi… vino… pasta… porte e finestre ed addirittura cancelli meccanici!

In sostanza, tre sono le gravi paradossali conseguenze di queste apparentemente benefiche iniziative: (1.) attribuiscono al settore una “importanza” economica maggiore di quella che effettivamente non ha; (2.) stimolano una distorta visione economicista della cultura, che è (dovrebbe essere) invece anzitutto strumento di coesione, inclusione, benessere sociale, fondamento della comunità civile; (3.) producono una confusione di numeri e statistiche, che peraltro spesso cozzano tra loro, contraddicendosi alla grande.

È vero che “l’economia della cultura” in Italia ha origini in fondo recenti (l’associazione per “Economia della cultura” è stata fondata nel 1986), ma va denunciato a chiare lettere che ad oggi, anno domini 2014, non esiste in Italia 1 fonte una che consenta di acquisire dati affidabili, stime validate, valutazioni quantitative attendibili, rispetto alle dimensioni reali dell’industria della cultura e dei media. Ed anche, quindi, dell’intervento della mano pubblica, tra Stato centrale, Regioni, enti locali. Nessuno può poi parlare seriamente di valutazioni di impatto, e quindi anche la “spending review” viene messa in atto con logiche nasometriche: un po’ come i 150 milioni che Renzi ha impropriamente richiesto alla Rai!

Tutte le fonti (inclusi Mibact ad Agcom) utilizzano stime deboli, cifre frammentarie, senza alcuna accuratezza metodologica e senza alcuna lettura organica e strategica delle interazioni tra settori e filiere.

In conclusione, nessuno in Italia può oggi sostenere quanto “conti” realmente la cultura nella socio-economia del Paese. Tanti si dilettano ormai a sparare cifre in libertà, senza che nessuno si prenda la briga di un primo inedito studio che sia finalmente serio e approfondito, organico e critico.