#Cashless, dal governo italiano ancora nessuna posizione su Bitcoin

di di Cristian Testa |

L’Europa avanza nella moneta elettronica ma dalle istituzioni italiane ancora nessuna posizione ufficiale.

#Cashless è una rubrica settimanale promossa da Key4biz e Waroncash.org.
Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.

Italia


Bitcoin

La scorsa settimana abbiamo parlato dell’atteggiamento delle istituzioni relativamente al Bitcoin negli ultimi mesi. Ora proveremo a fare una panoramica sugli aspetti più concreti della materia. 

Dopo la crescita impetuosa fatta registrare tra il 2013 e il 2014 e che aveva permesso alla moneta virtuale di superare i 1.200$ a pezzo, il denaro in bit ha ripiegato per tutto il primo trimestre 2014 scendendo anche sotto i 400$ ad aprile per poi riprendere la salita fino ai 600$ di questi giorni, favorito, si dice, soprattutto da fondi di private equity che vi stanno puntando.

L’interesse per la moneta elettronica rimane quindi alto, al punto che proprio pochi giorni fa Brett Stapper è diventato il primo lobbysta ufficiale al Congresso di Washington a rappresentare gli interessi della comunità che fa affari in Bitcoin. Inoltre Edmond Moy, ex direttore della zecca americana e quindi l’uomo che materialmente supervisiona la produzione del denaro tradizionale, ha rivelato nel suo blog di essere un’amante dell’innovazione monetaria perché globale, perché divisibile all’infinito e perché facile da portare con se, sempre e ovunque. Inoltre, sottolinea Moy la moneta di Sakamoto ha una riserva di valore che si basa unicamente sul mercato e quindi è un unicum nel panorama valutario mondiale, dove il valore delle singole divise nazionali è fortemente influenzato dalla politica monetaria delle banche centrali e dalle scelte economiche (nonché dalle contingenti difficoltà politiche dei governi).

 

Tutto ciò dimostra come le banche centrali europee avrebbero dovuto fare o quantomeno dire di più sul Bitcoin per chiarire la situazione e i suoi possibili sviluppi. Nel documento del 2012 la BCE invitava espressamente le banche centrali nazionali a “vigilare sui futuri sviluppi del fenomeno”. Alcune lo hanno fatto (come abbiamo visto la scorsa settimana), altre, come la nostra Banca d’Italia, hanno preferito rimanere in attesa, in tal mondo non aiutando il legislatore e le pubbliche amministrazioni che prima o poi dovranno occuparsi degli aspetti più materiali della questione.  

Al contrario delle banche centrali, gli organismi fiscali europei sono (quasi tutti) intervenuti nella materia inquadrando il fenomeno giuridicamente e quindi impedendo che le risorse economiche intorno alla moneta virtuale venissero sottratte agli erari nazionali. La HRMC inglese ha accarezzato per mesi l’idea di classificare la moneta virtuale come bene, quindi da sottoporre alla disciplina vigente per i voucher (titoli per l’acquisizione di beni e servizi) e quindi alla tassa del valore aggiunto (VAT, equivalente alla nostra iva). Ma le critiche piovute da più parti hanno spinto l’agenzia britannica a cambiare orientamento optando per la disciplina del capital gain, equiparando così di fatto la criptomoneta ai titoli quotati in borsa e mantenendo la VAT per l’acquisto di beni e servizi effettuati con il Bitcoin.

 

Molto attenta alla questione pare essere anche Finanzamt, l’equivalente tedesco della nostra Agenzia delle Entrate. In estate il Governo ha ufficialmente definito il Bitcoin come “units of account” e quindi una forma di denaro privato, in questo modo aprendo le porte ad una tassazione relativa sia ai guadagni finanziari dovuti alla compravendita del denaro virtuale sia all’acquisto di merci e servizi tramite esso (la nostra iva). Inoltre, anche la BaFin, il soggetto che controlla il mercato mobiliare tutelando gli investitori, ha preso una posizione allineata a quella governativa, precisando però che il Bitcoin è una moneta “sostitutiva” e che per operarvi su vasta scala è necessaria un’autorizzazione a norma della legge bancaria tedesca.

 

In Francia l’intervento in materia è stato fatto direttamente dal Ministero dell’Economia che il mese scorso ha fatto sapere che pur non riconoscendo il Bitcoin come moneta, si aspetta che i cittadini francesi che generano significativi profitti con la moneta virtuale li dichiarino al fisco. L’Agencia Trbutaria spagnola pur non avendo ancora preso una posizione ufficiale ha fatto trapelare voci secondo le quali il Bitcoin sarà considerata una forma di cash e non un bene ai fini fiscali seguendo il fenomeno con attenzione per contrastarne i possibili usi illeciti.

Interessante l’approccio della norvegese Skatteetaten che, considerando il Bitcoin non una moneta, ma un asset, ha quindi deciso di applicarvi la tassa sui capital gain, cioè la stessa che si usa per i profitti ottenuti sul mercato borsistico. La scelta dei norvegesi, ufficializzata nel dicembre 2013, è molto importante perché è stato il modello poi adottato dalla IRS americana e sta diventando uno standard di regime fiscale, visto che è poi stato adottato anche da altri paesi come il Brasile e come visto in precedenza dalla HRMC, seppur con notevoli problemi di applicabilità (negli USA si parla di “incubo contabile”, come detto la scorsa settimana)

 

Per quanto riguarda l’Italia non ci sono ancora posizioni ufficiali, né da parte del Governo italiano né dall’Agenzia delle Entrate, né soprattutto da BankItalia che avrebbe invece il compito in questa materia di dettare la linea. Cosi la materia fiscale rimane opaca, soprattutto in un paese come il nostro che ha visto stratificarsi una normativa complessa e spesso contraddittoria. Un intervento chiarificatorio sarebbe necessario, ma non si vede all’orizzonte una presa di posizione ufficiale, un po’ a causa dell’abituale lentezza della nostra burocrazia e un po’ perché si ritiene che il fenomeno nel nostro paese sia da considerare ancora marginale. La sorprendente eccezione è fornita da un organo che solitamente viene associato a sprechi e inefficienze: il CNEL, organo costituzionale in via di rottamazione, che a gennaio ha rotto il silenzio delle istituzioni italiane pubblicando, ma diffondendo assai poco, uno studio molto ricco sui pagamenti elettronici in generale e sul Bitcoin in particolare che ne mette in luce, oggettivamente, sia gli aspetti positivi (velocità, economicità) che quelli negativi (incertezza, volatilità).

 

Come spesso accade, le nostre istituzioni appaiono in difficoltà nel leggere l’evoluzione della realtà. Il Bitcoin non è il futuro, ma le cripto-monete sono un possibile futuro, un’evoluzione dei pagamenti e delle valute che ben si adattano al mondo globalizzato e al commercio elettronico. Ed è quindi necessario non solo osservare il fenomeno, ma cercare di dominarlo senza soffocarlo affinchè il futuro non riservi complessità e speculazioni peggiori di quelle dei nostri giorni.