Il partenariato pubblico-privato resta la soluzione migliore

di di Paolo Colli Franzone (NetSquare - Osservatorio Netics) |

Per la PA digitale, un modello di partenariato pubblico-privato sarebbe l’optimum: una vera azione di sistema che permetterebbe di andare oltre ai semplici slogan.

#PAdigitale è una rubrica settimanale a cura di Paolo Colli Franzone promossa da Key4biz e NetSquare – Osservatorio Netics.
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Italia


Paolo Colli Franzone

Sei anni fa, chiamato a contribuire alla stesura del piano strategico per un’importante società IT in-house posseduta dalla più grande Regione italiana, cominciai a parlare di “shared service centre” come modello applicabile alla pubblica amministrazione italiana.

Niente di particolarmente geniale né – tantomeno – originale: gli shared services esistono da almeno 15 anni, in mezzo mondo.

L’idea era quella di provare a immaginare l’evoluzione del modello di in-house provisioning dilagante nelle Regioni italiane  che – già allora, dopo l’entrata in vigore della Legge Bersani –  cominciava a manifestare preoccupanti segnali di affaticamento. Ebbi modo di scriverlo anche nel primo Rapporto Assinter (2009), in seguito a un lungo lavoro di ricerca su tutte le società in-house regionali.

 

Sono passati otto anni, e di in-house affaticate ne stiamo vedendo più d’una: la compressione dei costi destinati all’IT da parte delle amministrazioni regionali ha contribuito a mettere in evidenza un evidente limite di sistema derivato dalla natura peculiare di questi soggetti (giustamente) impossibilitati a “fare business” al di fuori dei loro rigorosi confini di enti strumentali.

E così, adesso, di trasformazione delle in-house in shared service centre ne parlano tutti.

Anche se forse, ci si limita a pronunciare la formula senza scendere in dettaglio: quale tipo, di shared service centre? Con quale modello di business?

 

Non è un problema da poco, soprattutto in quelle in-house che – per storia e tradizione – sinora hanno lavorato esclusivamente per le loro amministrazioni regionali azioniste.

Non è un problema da poco anche perché, nel frattempo (sono passati sei anni), non sono pochi i player privati pronti a giocare un ruolo significativo su questo nuovo mercato di shared service provisioning. Sia nei confronti della domanda di matrice “Sanità” (ASL e aziende ospedaliere) che di quella relativa agli enti locali.

 

Le in-house devono costruire un’offerta di “shared services” erogabili avendo cura di farlo senza perdere di vista il mercato: di cosa hanno bisogno gli enti? Quali prezzi sono disposti a pagare per quali servizi? Quali sono gli ambiti prioritari (servizi infrastrutturali, piattaforme, applicativi)?

Soprattutto: con quale modello di business, erogare questi servizi? Configurandosi come catalizzatori di mercato e costruttori di un “catalogo” aperto ai player privati, oppure tentando percorsi autarchici?

 

Ci si augura che la risposta esatta sia la prima: c’è un mercato privato che – per quanto affaticato da anni di calma piatta – è portatore di competenze e di credibilità nei confronti degli enti locali, oltre che di prodotti e servizi magari bisognosi di un refresh tecnologico ma complessivamente più che validi e completi.

 

Anche in questo caso, un modello di partenariato pubblico-privato sarebbe l’optimum: proviamo a immaginare le in-house che si mettono intorno a un tavolo (inter pares) coi principali produttori di tecnologie, ISV e service provider con l’obiettivo di costruire un’offerta davvero integrata, interoperabile e tecnologicamente allo stato dell’arte.

 

Non dimenticandosi di coinvolgere già in fase di disegno dell’offerta i naturali destinatari dei servizi, anche attraverso una strettissima collaborazione con le associazioni di rappresentanza dei Comuni da una parte e delle ASL dall’altra.

Una vera azione di sistema, insomma.

Altrimenti, rimaniamo nella propagazione di slogan e di “come sarebbe bello se”.