#Tecnolaw, le petizioni online sono davvero utili?

di di Marco Ciaffone (DIMT - Diritto, Mercato, Tecnologia) |

Le petizioni online, un fenomeno che si sta diffondendo in modo virale, ma sono davvero utili? Se ne è parlato a Radio Radicale nel programma ‘Presi per il Web’.

#Tecnolaw è una rubrica settimanale promossa da Key4biz e DIMT – Diritto, Mercato, Tecnologia.
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Italia


Petizione

Petizioni online, ormai sono tante, tantissime. Gli appelli e le raccolte di firme si diffondono in modo virale su tutti i social network accompagnati da commenti di ogni genere e un numero infinito di ‘Mi piace’. Ma quali sono i risultati concreti di queste petizioni nate in rete? Sono davvero in grado di produrre ricadute positive sui fenomeni che denunciano?

 

Si è parlato di questo nella puntata del 16 marzo di “Presi per il Web“, trasmissione di Radio Radicale condotta da Marco Perduca, Marco Scialdone e Fulvio Sarzana con la collaborazione di Sara Sbaffi.

Ospiti dell’appuntamento Salvatore Barbera, responsabile della sezione italiana della piattaforma di petizioni online Change.org, Riccardo Magi, Consigliere comunale radicale a Roma, Flavia Marzano, presidente di Stati Generali dell’Innovazione, membro dell’Innovation Advisory Group di EXPO2015, docente alla Sapienza di Laboratorio di Tecnologie per la Comunicazione Digitale e ideatrice di Women for Intelligent and Smart TERritories (Wister) e Gabriel Ektorp, portavoce del movimento degli Indivanados, i “rivoluzionari del divano che armati di telecomandi, tastiere e smartphone lottano a video aperto contro caste e poteri forti“.

 

Magi ha esordito illustrando un progetto di partecipazione civica mediato dalla rete sperimentato al suo ingresso in Campidoglio: “Open Campidoglio è una piattaforma presentata nel dicembre scorso e che si compone di quattro sezioni. La prima, ‘Campidoglio senza filtri’, è dedicata alla pubblicazione di documenti inediti dell’amministrazione capitolina che io ottengo attraverso l’accesso agli atti e che rendo fruibili da tutti i cittadini. Una seconda sezione è dedicata alla partecipazione dei romani, quella del ‘Consigliere partecipativo’, che rende possibile l’invio di interrogazioni al sindaco: le proposte che ci arrivano vengono esaminate e poi inserite in una fase di raccolta firme; quelle che raggiungo le duecento firme, quota che è necessaria anche per le interrogazioni popolari promosse offline, vengono depositate da me. C’è poi ‘Roma si muove’, aggregatore dei blog che si occupano di Roma, e infine la sezione per lo scambio di informazioni anche in forma anonima. L’idea nasce dall’idea di dare vita ad uno strumento di aggregazione e scambio di informazioni. Il vero problema è il blocco che spesso si instaura offline: è quando si riversano dentro le istituzioni i risultati delle iniziative che arrivano le frenate, con gli organismi pubblici che spesso finiscono per non rispettare le loro stesse regole”.

 

Finiscono così sotto la lente una serie di tematiche spesso intrecciate ma mai completamente coincidenti tra loro; c’è la issue della trasparenza della Pubblica Amministrazione, quella della partecipazione attiva dei cittadini al processo democratico di elaborazione delle proposte normative e, infine, il fenomeno dell’attivismo che nasce, e spesso muore, con i click. È forse quest’ultimo l’aspetto attorno al quale sono concentrate le maggiori critiche, fondate sia su basi statistiche, sia su quelle sociologiche.

 

Sul primo fronte, pochi giorni fa su Il Foglio compariva un articolo dal titolo esplicito: “Su Facebook tutti leoni, in realtà tutti in poltrona“; il riferimento è uno studio appena pubblicato sulla rivista “Sociological Science” nel quale si analizza in dettaglio una delle campagne più popolari su Facebook, intitolata “Save Darfur“, alla quale hanno aderito 1 milione e 200 mila persone su Facebook nei 989 giorni che vanno dal maggio 2007 (quando il gruppo fu fondato) al gennaio 2010 (il momento in cui la ricerca si ferma), per donazioni complessive di 90.776 dollari. Numeri enormi ai quali, tuttavia, fanno da contraltare quelli di chi si è attivato realmente per la causa: il 72% di quanti hanno fatto click sulla causa, per esempio, non ha convinto neanche uno solo dei suoi amici o conoscenti a fare lo stesso, il 99,76% dei membri del gruppo non ha mai donato un euro o un dollaro e il 94% di quanti hanno donato, lo ha fatto soltanto una volta.

 

“Se poi dal calcolo – prosegue l’articolo su IlFoglio – si escludono i pochissimi ‘iperattivisti’ (come per esempio quel membro di ‘Save Darfur’ che ne ha convinti da solo altri 1.196 ad aderire o quel donatore che ha dato 2.500 dollari), viene da chiedersi cosa davvero abbiano fatto per la causa del Darfur un milione e passa di appartenenti al celebre social network. Risposta: poco o nulla“. Più ottimista la visione del fenomeno proposta da Giovanna Cosenza su IlFattoQuotidiano.

 

Resta poi aperta la spinosa questione della reale utilità delle piattaforme di interazione sociale online al “progresso” delle comunità piuttosto che il loro essere bacino di lauti ricavi per chi ne è proprietario. In un convegno alla Camera dei Deputati venerdì scorso, ad esempio, Stefano Rodotà ha spiegato che “le reti sociali nascono dall’idea di cercare il modo migliore per sfruttare economicamente l’iperconnessione di milioni di persone che generano altrettanti milioni di dati. Bisogna discutere sulle pre-condizoni della democrazia sul web a fronte della rapidità dell’innovazione tecnologica. Il controllo dei poteri sociali da parte dei big del web è una discussione aperta e non va dimenticato il concetto di diritti dei nuovi popoli del web”.

 

Un pensiero a cui si aggiungono le critiche di chi, come il sociologo e giornalista bielorusso Evgenij Morozov e il giornalista italiano Fabio Chiusi, critica fortemente le letture che indicano nella rete uno strumento democratizzante a priori, quelle che lo stesso Morozov in un libro dal titolo “To save everything click here” reputa figlie di un Internet centrismo.

 

È dunque un fronte ampio e articolato quello col quale deve confrontarsi chi, come Change.org o l’altra principale piattaforma di petizioni online Avaaz, ha come cuore della propria attività proprio l’aggregazione delle persone intorno ad una causa e al proprio sostegno tramite attivismo online. “La mobilitazione online – ha spiegato Barbera – coinvolge ormai nel mondo centinaia di milioni di persone, che ogni giorno ricevono email e quando lo ritengono opportuno si attivano nelle modalità che conoscono. La paura che le persone utilizzando i siti Internet e il Web finiscano la propria attività politica solo sulla rete è un problema serissimo, che va affrontato e che anche noi addetti ai lavori percepiamo come urgente. Bisogna tuttavia evitare letture semplicistiche dei fenomeni, e la questione va posta in maniera molto diversa: non è che chi si attiva online e chi si attiva offline sono persone diverse. Parliamo di un fenomeno che, in un contesto storico in cui, come negli anni ’90, le persone hanno fatto meno attività politica, riscopre grazie ad una tecnologia un modo di mobilitarsi. Bisogna certo evitare di credere che per vincere una battaglia basti mettere un like o firmare una petizione online”.

 

“Non è che le petizioni siano nate oggi con la rete – ha chiosato Barbera – ma oggi c’è un modo più immediato, facile, ampio e gratuito per partecipare. I numeri dicono che le iniziative che vanno a bersaglio sono una parte molto piccola rispetto a quelle totali? Certo, ma fa parte della logica dei grandi numeri della rete. Pensiamo a Youtube: quante delle decine di migliaia di video che sono sulla piattaforma hanno le caratteristiche per diventare virali e ottenere milioni di visualizzazioni? Molto pochi in proporzione. Sulla rete c’è di tutto, e questa varietà, questa libertà, sui grandi numeri, permette di far uscire anche qualcosa di importante. Anche il solo porre nel dibattito pubblico una questione della quale non si sarebbe parlato significa contribuire al cambiamento in positivo”.

 

“Occorre infine capire – ha concluso Barbera – la differenza tra le campagne, perché quando le tematiche toccano le vite di chi si attiva online c’è una bella differenza rispetto a campagne come ‘Save Darfur’. Dobbiamo concentrarci su chi sono le persone che partecipano a queste mobilitazioni, e anche il dato demografico su Change.org ci parla di un’età media molto alta, un dato che ci porta a ragionare su quali sono le fasce di popolazione che in Italia sono realmente interessate all’attivismo politico, un passaggio che fa il paio con la presa di coscienza che, comunque la si veda, oggi una campagna di mobilitazione non è pensabile senza l’utilizzo dei nuovi mezzi di comunicazione, che devono affiancarsi e non sostituirsi alle tradizionali forme della politica”.

 

 

Dopo Barbera è stato Ektorp, il cui nickname fa il verso a quello di un mobilificio svedese, a spiegare la filosofia che anima il movimento del quale è portavoce: “Indivanados nasce come una provocazione e dalla sensazione che tutta l’indignazione che viene manifestata ogni giorno in rete finisca per non produrre nulla. Ci siamo chiesti perché e come cambiare gli output. I primi esperimenti che abbiamo messo in atto sono partiti dall’importazione nella politica del tweet storm, al quale tuttavia ha fatto seguito un coordinamento telefonico tra gli attivisti e i soggetti protagonisti delle battaglie, in un percorso terminato con la messa a punto di report della mobilitazione da inviare a politici e amministratori. Nel caso di un’associazione romana siamo arrivati a far andare il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti nella loro sede a prendere un impegno in merito alla situazione di difficoltà nella quale erano piombati. In fondo stiamo trasportando in rete una cosa antica, cioè chiedere alle persone di aggregarsi intorno ad una causa, una passione, un’iniziativa che sta a cuore a tutti”.

 

 

“L’attivismo online e quello offline di certo non si escludono – è stata la chiosa di Magi – ma il primo rafforza il secondo“. “Bisogna essere ottimisti – ha affermato Marzano – di sicuro l’attivismo online è un fenomeno positivo, non è la panacea di tutti i mali della società, ma è una delle facce del prisma della comunicazione tra cittadino e Pubblica Amministrazione, ed è uno strumento che i politici non possono più ignorare facendo finta che non esista”. “La maggior parte delle persone – ha concluso Ektorp – non ha tempo di fare militanza politica tradizionale, ma ha a disposizione una quantità di tempo limitata che tuttavia, grazie alle nuove tecnologie, può essere messa a sistema con quella di altre persone. I luminari che criticano questo tipo di partecipazione troppo spesso non danno una soluzione al loro affermare che ‘la rete non basta’, si limitano a destrutturare; la nostra risposta è rendere il Web 3.0 mettendoci dentro le persone”.