Il referente dell’industria IT è la politica non il CIO

di di Paolo Colli Franzone (NetSquare - Osservatorio Netics) |

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Paolo Colli Franzone

#PAdigitale è una rubrica settimanale a cura di Paolo Colli Franzone promossa da Key4biz e NetSquare – Osservatorio Netics.  Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.

 

Se c’è una evidenza macroscopica, questa è rappresentata dalla “debolezza” della lobby digitale. Soprattutto se paragonata alla potenza di fuoco dimostrata, in decenni di successi, da lobbies, quali quella dei costruttori o delle multinazionali del food e del pharma.

Sto parlando, ça va sans dire, di “lobby” nel senso positivo del termine: la lobby “pulita”, trasparente, al servizio della politica e non ad essa asservita. Quella che serve per generare consapevolezza e creare consenso rispetto a un tema, a un obiettivo.

Quella, ad esempio, che avrebbe dovuto intervenire in risposta al lavoro della lobby degli editori finalizzato a prorogare l’avvio della diffusione dei testi scolastici digitali. Oppure quella che avrebbe dovuto “perorare la causa” di una giustizia finalmente digitalizzata in ogni suo anfratto. Oppure ancora, quella che è mancata in parecchie delle “battaglie perse” in questi ultimi anni, qui in Italia, dalla sanità ai trasporti.

 

Negli anni trascorsi le varie emanazioni confindustriali (Confindustria Digitale e Assinform, pur se in mezzo ad alti e bassi) hanno indubbiamente fatto un grandissimo lavoro di promozione delle ICT verso gli interlocutori/controparti “naturali” (dal vecchio Ministero per l’Innovazione di inizio secolo in poi), sperando probabilmente che tutto questo fosse sufficiente a “contagiare” la (enorme) restante parte delle istituzioni.

E’ così mancata un’azione “virale” e “settoriale”, fatta di “appostamenti” nei singoli ministeri (a partire dal MEF e dalla Ragioneria Generale dello Stato) e di “apertura di canali” nei confronti di quella maggioranza di parlamentari “indifferenti”.

 

Anche gli influencer, gli analisti, i (pochi) giornalisti specializzati continuano a parlare di innovazione tecnologica della PA restando nel circuito chiuso dei soliti noti, dimenticandosi che la domanda si genera soltanto convincendo “chi ha il portafoglio”.

I convegni sull’innovazione continuano a essere “adunate di CIO” e sedute di rigorosa autoreferenzialità, alla stregua delle adunate di combattenti e reduci che se la raccontano tra di loro.

L’industria IT finanzia convegni e cocktail, dove tecnologi parlano con tecnologi, venditori tentano di vendere a compratori sempre più “in bolletta”.

 

Così facendo, il circuito chiuso diventa stantio.

 

Sarebbe il caso di ripensare completamente il “circuito”, partendo dalla considerazione (avvalorata, peraltro, dai risultati dell’Osservatorio Assinform ICT PA e Sanità) che questo mercato non può espandersi se non a fronte di un vero e proprio cambio di paradigma da parte delle amministrazioni pubbliche. Come giustamente sostiene il Digital Champion Francesco Caio, dobbiamo ragionare in termini di “rivoluzione digitale”: una riforma epocale della PA, dove la digitalizzazione è “mezzo” e non “fine”.

E’ il caso, quindi, che l’industria IT (le singole aziende, ma anche le istanze istituzionalmente rappresentative) cominci a parlare di tecnologia abilitante il cambiamento, rivolgendosi non già ai poveri CIO pubblici sempre meno “ricchi” e sempre più “in un angolo” quanto piuttosto ai “detentori del portafoglio e del potere decisionale reale”. Argomentando attraverso analisi finalizzate a descrivere in dettaglio (non limitandosi, cioè, a “slogan”) i benefici ottenibili dalla digitalizzazione della PA e della Sanità italiana.

Più economia, meno tecnologia.