Società in-house: ‘Basta mezze misure, bisogna rivalutarle’

di di Paolo Colli Franzone (NetSquare - Osservatorio Netics) |

Italia


Paolo Colli Franzone

#PAdigitale è una rubrica settimanale a cura di Paolo Colli Franzone promossa da Key4biz e NetSquare – Osservatorio Netics.  Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.

 

I dati diffusi dall’Osservatorio ICT PA e Sanità di Assinform (ricerca effettuata da NetConsulting e Netics) evidenziano come nella sola PA regionale compresa la Sanità quasi un terzo della spesa IT viene drenata dalle società pubbliche “in-house”.

Non è necessariamente un bene, ma neppure un male: ma è certamente un fenomeno non trascurabile.

Anche Francesco Caio, nel suo intervento al convegno di presentazione dei risultati dell’Osservatorio, ha sollevato il tema delle “in-house”, forse per la prima volta mettendo in risalto anche le società IT possedute dalla pubblica amministrazione centrale con un riferimento diretto a SOGEI.

Non si tratta, ribadisco, di etichettare il fenomeno: esso può essere indistintamente catalogato come positivo o negativo, in quanto non è l’attributo “in-house” di per sé stesso a rappresentare il problema.

Il problema è molto più serio, e ha a che fare col “modo” in cui queste società pubbliche (centrali, regionali o locali che siano) esercitano il loro ruolo sul mercato ICT per la pubblica amministrazione.

 

Innanzitutto, le “in-house” devono rappresentare la domanda, e non l’offerta. Esse sono (come giustamente recita la norma comunitaria) “propaggini” delle rispettive amministrazioni affidanti.

Devono muoversi (e praticamente tutte lo fanno) secondo le logiche e le procedure tipiche della PA.

Non sono “aziende”, nel senso “commerciale” del termine.

Devono governare e organizzare la domanda, recependo i bisogni delle amministrazioni affidanti e operando come loro enti strumentali.

E fin qui, più o meno, nessun problema.

 

Il problema grosso è quello che si riscontra allorquando si va a guardare in profondità nel quotidiano operare di molti (non tutti) di questi soggetti. Trovando, ogni tanto, qualche piccolo problema.

Come ad esempio la brutta abitudine di comprare risorse umane al massimo ribasso, mantenendo all’interno della società pubblica il coordinamento di progetti e la capacità (inutile, stante le limitazioni imposte dalla “Legge Bersani” del 2006) di replicare gli stessi verso l’esterno (altre amministrazioni), se non attraverso il poco attuato strumento del riuso.

In altri termini, molte delle “in-house” (non tutte, per la verità) “nascondono” il valore dei progetti che realizzano togliendo al mercato privato opportunità di crescita potenzialmente significative.

 

Il tema diventa ancora più interessante quando si parla sempre più sovente di partenariato pubblico-privato come elemento abilitatore di una “forte ripresa” degli investimenti in ICT da parte delle pubbliche amministrazioni. Su questo terreno le “in-house” non paiono aver ancora recepito correttamente il loro possibile ruolo: registi, non protagonisti.

Registi insieme alle rispettive amministrazioni affidanti, sulla base di strategie elaborate dal pubblico.

Soggetti capaci di relazionarsi col sistema dell’offerta sulla base di accordi di partenariato e non già di “rapporti di forza”.

Anche in questo caso, non c’è niente da inventare: basta copiare uno qualsiasi dei modelli “vincenti” (Canada o Stati Uniti, tanto per fare due esempi), dove le agenzie federali o locali (“provinciali” nel caso del Canada) lavorano costantemente coi vendor privati sulla base di programmi condivisi e non già di “capitolati puntuali”.

 

In ogni caso, riprendendo le parole di Caio, bisognerà a un certo punto fare chiarezza sul futuro delle “in-house”, molte delle quali stanno attraversando un momento particolarmente delicato anche in funzione dei tagli di budget operati dalle amministrazioni affidanti.

Prima però, è necessario che siano le Regioni (in quanto, prevalentemente, “proprietarie” di queste società ICT pubbliche) a definire una strategia sistemica per l’agenda digitale: pensare che possano esistere, anche solamente in via puramente teorica, 21 agende digitali diverse contenenti tutte più o meno le stesse cose (e gli stessi progetti) non è più possibile. Sono finiti i tempi d’oro, con relative e conseguenti “vacche grasse”.

Il rischio è che nessuna di queste “in-house” possa reggere l’impatto derivante da uno scenario come quel “do more with less” cui ci si riferisce abitualmente quando si parla di evoluzione dell’innovazione tecnologica in ambito pubblico.

 

L’obiettivo finale dovrebbe essere quello di restituire valore alle “in-house”, realizzando le condizioni migliori per una futura loro collocazione sul mercato.

Mantenendo la governance dell’innovazione in mano rigorosamente pubblica, attraverso la costituzione di Agenzie Regionali snelle a piacere e capaci di assicurare funzioni di demand e program management.

All’estremo opposto, uno scenario di “informatica di Stato”.

Non valgono (e non funzionano) le mezze misure.