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Net neutrality: Critica della rete neutrale, appunti sul dibattito transatlantico

Andrea Renda

Riceviamo e volentieri pubblichiamo il contributo di Andrea Renda, Ph.D., Senior Research Fellow Centre for European Policy Studies Manager, CEPS Digital Forum

La neutralità della rete ha tenuto banco come argomento di feroce dibattito negli ultimi anni, negli Stati Uniti come in Europa: un dibattito che recentemente ha subito una accelerazione da entrambi i lati dell’Atlantico, fino a sfiorare la velocità di fuga. Questo breve contributo prova a catturare il continuo divenire della querelle sulla neutralità della rete, corredandolo di un’analisi prospettica su cosa potrebbe stare per accadere, salvo che l’autore venga ovviamente smentito.

Stati Uniti

Partiamo da Washington. Compiendo una inversione di rotta tanto controversa quanto auspicata dal Presidente Obama e preannunciata dallo stesso Chairman Tom Wheeler, il 26 febbraio la Federal Communications Commission (FCC) ha deciso di riclassificare i servizi a banda larga come servizi di telecomunicazione ai sensi del Titolo II del Telecommunications Act.

La decisione è stata accolta con favore dai fautori della neutralità della rete, intesa come obbligo, da parte degli operatori di rete, di trattare ogni bit del traffico da loro gestito in modo non discriminatorio. Si tratta però di una conclusione forse affrettata, che merita un supplemento di analisi, nonché una riflessione più approfondita sull’idea stessa di neutralità e sulla probabilità che gli obiettivi di policy perseguiti dalla net neutrality siano davvero realizzabili e desiderabili da un punto di vista sociale.

La decisione della FCC porta con sé una serie di conseguenze, quanto meno potenziali, che qui è bene riassumere. Innanzitutto, il nuovo Open Internet Order (reso noto nel suo testo definito il 12 marzo) proibisce qualsiasi forma di blocco di contenuti e applicazioni da parte degli Internet Service Provider, nonché l’assegnazione di priorità ad alcuni tipi di traffico rispetto ad altri dietro pagamento (c.d. paid prioritization). Tutte le altre condotte sono soggette a uno standard di ragionevolezza, che vieta agli ISP di interferire, in modo appunto irragionevole, con la libertà degli utenti di accedere ai contenuti, alle applicazioni, ai servizi e alle device che preferiscono.

Ciò significa anche che qualsiasi pratica di gestione del traffico che venga considerata ragionevole è da considerarsi lecita a tutti gli effetti.

La ragionevolezza di una pratica dipende dal fatto che essa sia primariamente legata a necessità di gestione ottimale del traffico di rete, piuttosto che alla realizzazione di scopi commerciali.

Peraltro, la FCC ha adottato una regola diversa per le reti mobili, affermando la ragionevolezza delle pratiche di gestione del traffico verrà valutata in base all’analisi dei dati tecnici della rete, caso per caso. I  servizi specializzati, ribattezzati non-Broadband Internet Access Services (non-BIAS), saranno invece ammessi, anche se la FCC prevede di monitorare la condotta dei provider al fine di evitare condotte abusive.

Ma la parte che più lascia perplessi nel leggere il nuovo Open Internet Order è il fatto che esso si applichi non soltanto alla gestione del traffico, ma anche alle pratiche di interconnessione: qui la decisione di riclassificare i servizi broadband nel “Titolo II” porta con sé anche obblighi di praticare tariffe di interconnessione eque e non discriminatorie, nonché l’applicabilità di regole in materia di accesso all’infrastruttura, servizio universale e persino la tutela della privacy.

Si tratta, insomma, di un cambiamento di direzione significativo – quanto meno a parole, posto che la FCC si è poi affrettata ad aggiungere che eserciterà i suoi nuovi poteri con parsimonia e self-restraint. La portata di tale cambiamento va dunque valutata cum grano salis: da una parte, non è chiaro cosa costituisca reasonable traffic management; dall’altra, è possibile che ai primi cenni di esuberanza regolatoria da parte della FCC le telco decidano di dare battaglia in tribunale, sede nella quale il precedente Open Internet Order del 2010 era miseramente capitolato nel gennaio 2014, nel corso della controversia tra Verizon e Netflix.

A dire il vero, sembra che l’associazione di categoria US Telecom e un provider di servizi a banda larga (Alamo broadband) abbiano già innescato la miccia dei ricorsi. In aggiunta, è evidente che nella decisione della FCC abbia pesato, e non poco, l’appello per la neutralità della rete rivolto dal Presidente Obama nel novembre 2014: ciò implica anche che, dovesse esservi un cambiamento di orientamento politico nelle prossime elezioni presidenziali, gli equilibri potrebbero nuovamente cambiare, e non di poco.

Europa

Se gli Stati Uniti sono dunque finiti in una impasse di difficile superamento, in Europa la situazione non è migliore. Mentre gli Stati Membri dell’Unione Europea procedevano in ordine sparso (Olanda e Francia fautrici della neutralità, Regno Unito e Germania ben più tesi verso la differenziazione del traffico), la Commissione europea e il Parlamento europeo hanno dato vita a una danza alquanto acrobatica, che ha visto per lo più la prima adottare posizioni favorevoli alla liceità dei c.d. servizi specializzati, mentre il secondo si è affrettato – a dire il vero, senza troppa riflessione – a sostenere a piè fermo il principio di neutralità.

L’ultimo leak della bozza di documento da discutere nel trialogo tra Commissione, Parlamento e Consiglio, menziona la possibilità di servizi specializzati in modo non troppo dissimile dall’Open Internet Order statunitense. Ma è presto per trarre conclusioni: i più accorati e maliziosi sostengono che a Bruxelles, la vera partita si gioca sul delicato equilibrio tra la decisione sull’azzeramento delle tariffe di roaming internazionale (che la Commissione vorrebbe posticipare al 2018) e quella

sulle eccezioni alla neutralità della rete, e che la Commissione sia disposta a sacrificare la prima (mantenendo così l’azzeramento del roaming al 2016) sull’altare della seconda. Se così sarà, l’Europa si allineerà di fatto agli Stati Uniti bandendo le pratiche più evidentemente incompatibili con il principio di neutralità, e mantenendo la porta aperta a possibili servizi specializzati.

È un bene o un male per l’Europa? I dubbi sono molti e alimentati, ahinoi, dalla scarsa qualità del dibattito brussellese. Ci si limita, qui, a segnalare alcuni punti di rilievo, in punta di penna.

Innanzitutto, se la regola europea tornerà a invocare la possibilità di servizi specializzati purché non ne venga denervata la rete pubblica in modo eccessivo (come nell’originario testo della proposta Connected Continent), rimarrà da vedere se esista un modo per applicare in concreto la normativa.

Quando si potrà dire che l’Internet pubblico sia stato eccessivamente compresso dai servizi specializzati? Posto che la qualità del servizio dipende dalle condizioni della rete, potranno i regolatori europei monitorare la fluidità del traffico in ogni periferia della rete, ogni palazzo, ogni CAP? Saranno contenti, i fautori della neutralità, di vederla implementare non già come strumento di libertà dell’utente finale, ma attraverso un costante e pervasivo pattugliamento della rete da parte delle autorità pubbliche, in pieno stile da Grande Fratello? Quali soglie utilizzeranno, i nostri, per determinare la natura “eccessiva” del pregiudizio recato alla rete best effort? I precedenti non sono incoraggianti, posto che, anche se in pochi lo ricordano, una regola simile esiste in Europa già dal 2009 (quando fu introdotta nella direttiva servizio universale), ma è rimasta sin qui lettera morta in tutta Europa.

Inoltre, l’enfasi sulla neutralità ha portato e continua a portare, specialmente in Europa, a una inusitata polarizzazione del dibattito. I parlamentari europei non resistono alla tentazione di sposare aprioristicamente l’idea di neutralità, e lo fanno in modo istintivo, pensando che ciò che è neutrale sia sempre positivo.

Mai si azzarderebbero, i parlamentari, a sfidare la sorte pronunciandosi contro tale potente attributo. E anche se con alcune varianti, lo stesso sta accadendo tra l’opinione pubblica, ormai innamorata del concetto di neutralità e del suo indiscusso appeal simbolico. Si pensi anche alla Dichiarazione dei Diritti in Internet promossa assai autorevolmente all’interno del nostro parlamento nazionale.

Sono in pochi a rilevare che la neutralità non è affatto sinonimo, né presupposto, di democrazia. Sarebbe democratico vietare gli express courier nel settore postale? Sarebbe democratico vietare che i privati aprano cliniche specializzate a costi maggiori della sanità di base? È democratico vietare i pedaggi autostradali? E più in generale, sarebbe più democratico standardizzare i servizi offerti agli utenti finali, così che nessuno possa averne uno migliore degli altri? Torna in mente, a questo proposito, un simbolo dell’era comunista come la Trabant: il fatto che tutti potessero avere la stessa, identica automobile, di scarsa fattura e basso prezzo, non rendeva la Germania dell’Est più democratica di quella dell’Ovest.

E quando il muro cadde, quasi ventisei anni fa, i cittadini dell’est passarono con le loro Trabant dall’altra parte e le abbandonarono al margine della strada, desiderosi di vivere una vita meno “neutrale”. La verità è che una società avanzata offre i servizi di base a prezzi abbordabili a tutti i cittadini, senza divieti o discriminazioni: ma non vieta che chi possa o voglia pagare di più per servizi di maggiore qualità possa averne accesso.

Questo discorso, ad oggi, non è stato però affrontato in tutte le sue sfaccettature. Così, il bisogno di neutralità viene applicato non soltanto alla infrastruttura e alla gestione del traffico (e già qui, come si è detto, vi sarebbe da discutere), ma finisce con l’essere evocato anche ai livelli “superiori” della architettura di Internet, come da alcuni autori (incluso il sottoscritto) paventato già alcuni anni or sono. Nasce così la neutralità dei motori di ricerca, la neutralità dei cloud provider, la neutralità delle device (già, persino quella è uscita dalla fervida immaginazione del parlamento europeo!), e da ultimo la neutralità delle c.d. “piattaforme”, enti indistinti e sin qui indefiniti che, come si accennava, in molti a Bruxelles hanno la tentazione di regolare.

L’equivoco della neutralità a tutti i costi

Si tratta di una deriva a dir poco pericolosa. La folle rincorsa verso la neutralità porta con sé un possibile equivoco, anzi una molteplicità di equivoci che qui proverò a individuare.

Da una parte è evidente che imporre la neutralità della rete a livello di infrastruttura non renderebbe affatto la rete neutrale (esistono, per fortuna, numerosissime forme di accelerazione del traffico, come i servizi offerti da imprese come Akamai, Limelight, Level 3 e altri). La stessa decisione statunitense, oltre a consentire i servizi specializzati, nulla dice rispetto a forme di caching e accelerazione del traffico che possono essere utilizzati solo da chi ha abbastanza denaro da investire in una rete di server o valersi di giganti della rete come gli operatori menzionati. A livello europeo, se dovesse prevalere l’impostazione del Parlamento, il pericolo sarebbe invece la frammentazione di Internet in una serie di reti, soprattutto private.

D’altronde, è parimenti evidente che imporre la neutralità ai livelli superiori della rete è tanto indesiderabile quanto praticamente impossibile: provate a utilizzare un motore di ricerca neutrale, e ve ne accorgerete. La verità è che su Internet, la sovrabbondanza di informazione genera un bisogno di semplificazione, e la semplificazione – soprattutto quando avviene attraverso ranking come nei motori di ricerca – è inevitabilmente scevra da neutralità.

Ma vi è di più. Si fa strada, nel dibattito brussellese, l’idea che la neutralità, se applicata ai livelli più alti della rete, possa fungere a un tempo da stimolo all’innovazione, strumento di protezione del consumatore, di tutela del copyright e di garanzia di pluralismo. Anche in questo caso, i dubbi abbondano.

Di sicuro, molte forme di innovazione sono state facilitate, piuttosto che inibite, da modelli di business non neutrali: pensate che Spotify, Uber o Airbnb siano stati danneggiati dall’esistenza di App store come quelli di Apple e Google? Tra l’altro, l’imminenza della quarta rivoluzione industriale (Industry 4.0) e più in generale dell’Internet of Things impone che a determinate applicazioni critiche debba essere garantita una latenza sufficiente e una soglia minima di qualità del servizio. L’ottimizzazione del traffico sulla rete diviene dunque imperativo categorico, in una società iperconnessa e caratterizzata da un ritmo di investimenti in nuove infrastrutture ancora claudicante.

Quanto alla tutela degli utenti, si fa strada l’idea che la neutralità possa utilmente essere applicata alle c.d. “piattaforme” come i c.d. GAFA (Google, Apple, Facebook, Amazon). Ma quest’approccio mal si sposa con l’idea, fatta propria dalla Commissione, che vorrebbe attribuire maggiore responsabilizzazione delle stesse “piattaforme” rispetto ai diritti degli utenti (a tal proposito sta per essere pubblicata una consultazione pubblica che durerà almeno dodici settimane).

In altre e più banali parole, sta emergendo una clamorosa contraddizione: da una parte si cerca di imporre neutralità agli intermediari della rete, dall’altra si attribuisce ad essi una funzione editoriale, di controllo dei contenuti, che si accompagna a un principio di responsabilità per le condotte abusive dei propri utenti (ad esempio, chi posta video protetti da copyright su Youtube) e per casi di violazione dei diritti degli utenti.

Si pensi a Google per comprendere la dimensione di tale contraddizione. Delle due l’una: o Google è un motore di ricerca neutrale, e allora non può essere responsabile degli effetti giuridici dei risultati prodotti dal suo algoritmo; oppure è una media company, e non si vede perché debba essere soggetta a obblighi di neutralità.

Quest’ultimo esempio ci porta nel cuore del dibattito attuale, quello sul pluralismo dei media. Se il principio di neutralità mal si adatta ai GAFA, qui la situazione è ancor peggiore. Nonostante quanto sembra riposare nella mente della Commissione europea, è evidente che la neutralità non è una risposta alla necessità di garantire il pluralismo dei media. Al contrario: un motore di ricerca neutrale concentrerà le proprie risposte sui contenuti più popolari, scartando le voci minoritarie. Non c’è modo, se non attraverso una politica mirata a garantire il pluralismo dell’informazione, di attendersi da un intermediario della rete la valorizzazione di risultati a vocazione eminentemente minoritaria.

Riassumendo, gli Stati Uniti e l’Unione Europea sembrano destinati a convergere, in larga misura, sulla net neutrality. Peccato, però, che l’Unione si stia ingegnando nell’estendere a perdita d’occhio questo concetto, già di per sé controverso, ad ambiti nei quali esso costituisce una risposta sbagliata a un problema mal formulato.

Rimane da augurarsi che l’Europa si fermi sul ciglio del burrone, e che questa tentazione olistica lasci gradualmente spazio a un atteggiamento più rispettoso della continua evoluzione della rete. Un atteggiamento che ispiri politiche pubbliche orientate a preservare il valore più prezioso della rete – non la sua neutralità, ma il suo end-to-end design, quello che consente a ciascun utente di comunicare, senza filtri o restrizioni di sorta, con ogni suo pari.

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