Il dibattito

Lavoro nelle comunicazioni: serve un patto virtuoso tra imprese, istituzioni e Università

di Stefano Rolando. Università Iulm. Componente  Corecom della Lombardia |

Il lavoro nel campo delle comunicazioni è parte integrante di un complesso intreccio di questioni: qualità della politica e della legislazione; coraggio degli investimenti e della previsionalità nelle culture imprenditoriali; evoluzione tecnologica; ricerca; creatività; presidio dei diritti.

Nel pieno della “due giorni” (2 e 3 ottobre) del consiglio informale UE a Milano per riunire i 28 ministri delle comunicazioni attorno al tema “Internet Governance”, la CISL ha collocato la “tre giorni” del Forum del Lavoro per avviare l’integrazione di sue tre organizzazioni finora separate: quella delle comunicazioni, quella dell’energia e quella dei trasporti. Come dice il brand lanciato Cisl Reti, appunto una organizzazione sindacale delle reti. Nella sessione dedicata alle comunicazioni Antonello Giacomelli (sottosegretario di Stato responsabile della competenza nel Ministero dello Sviluppo Economico) ha ritagliato un’ora rispetto all’impegno coordinante del tavolo europeo e ha illustrato a operatori e sindacalisti la proposta del governo italiano in materia nel quadro del semestre di presidenza.

Senza “patto” tra istituzioni, impresa e lavoro non c’è massa critica per abbandonare vizi e abbracciare l’innovazione competitiva. Il triangolo nevralgico del sistema avrebbe forti ragioni per invocare una certa discontinuità. Ma abbandonare strade note non è facile e dipende da condizioni generali che non esistono solo a parole o negli annunci.

Si aggiunge un altro soggetto,  quello delle università (in senso ampio quello dei processi formativi e della conoscenza) che costituisce la quarta gamba del tavolo e che ha la sua parte di competenza  in un eventuale progetto di uscita dalla crisi. Crisi che, non lo nascondiamo,  riguarda anche questo settore considerato superficialmente  ricco e in espansione.

Il tema del lavoro nel campo delle comunicazioni è infatti parte integrante di un complesso intreccio di questioni: qualità della politica e della legislazione; coraggio degli investimenti e della previsionalità nelle culture imprenditoriali; evoluzione tecnologica governata per le sfide globali; dinamiche degli stili di vita e dei consumi capaci di costituirsi in  effettiva domanda;  mantenimento della soglia vitale della ricerca; incentivi alla creatività; presidio e organizzazione dei diritti.

Se è vero che questo settore è diventato primaria economia planetaria ciò sta significando che attorno ad esso ruotano logiche globali; che esso è divenuto nodo di forti conflitti di poteri e di interessi; che esso custodisce rischi e opportunità che si intrecciano e che vanno governati con competenza.

Abitualmente si considera che i comparti di creatività/produzione/consumo che compongono il settore riguardino:

l’editoria libraria e giornalistica (in evidente affanno);

il sistema radiotelevisivo  (in evidente transizione);

le telecomunicazioni (in egemonia della convergenza);

l’architettura tecnologica (produttiva e distributiva) che attraversa e intreccia i tre settori (che non dovrebbe vederci, come europei, solo come consumatori).

Quando diciamo logiche globali vogliamo dire che l’andamento del mondo va studiato e non rifiutato, che gli aspetti di convergenza che si vanno formando non devono essere arginati con protezionismi che allungano solo la discriminazione non la rendita, che il mondo non è solo una lezione ma anche una opportunità (malgrado l’aspetto non   secondario di essere il nostro un paese che opera con una lingua non veicolare). Studiare e non rifiutare, tuttavia, non significa rinunciare a difendere interesse nazionali (e persino territoriali) ma saper trovare un ruolo attivo nella globalizzazione. Usciamo da un quadro di governance europea (ora pare raddrizzabile) che non ha dato grandi prove al riguardo e che non ha compiuto la scelta sfidante di costruire un pluralismo geo-economico nel sistema più rilevante, quello della rete.

Quando diciamo conflitti di potere dobbiamo sperare che il sistema abbia istituzioni (soprattutto quelle di vigilanza) degne dell’indipendenza che è garanzia di governo del conflitto. Il conflitto (come per le persone e per i fatti storici) è maturativo solo se governato, diversamente è produttore di patologie. Qui sono in gioco questioni cruciali. Ne cito tre  vitali per l’Italia:  adeguatezza del modello organizzativo dell’amministrazione governante;  competenza e indipendenza nel processo di nomina nelle autorità di controllo; introduzione di potenti competenze di valutazione.

Sarebbe ora che il Parlamento italiano – che ha responsabilità importanti in questa materia – ci facesse capire da che parte sta. E i venti che si alzano per parlarci della nuova Rai spero facciano capire da che parte vuole davvero andare quel vento.

Quando diciamo un sistema misto di opportunità e di rischi diciamo alcune cose concrete che il professionista, l’imprenditore, il lavoratore, il legislatore hanno di fronte ogni giorno. Mi limito a un piccolo elenco. Sono infatti rischi: la rapidissima obsolescenza dei processi di mutazione della relazione tra tecnologie e stili di vita; l’insufficienza continua dell’approccio delle conoscenze; la dinamica dell’evoluzione tecnologica (spesso job killer a breve ma con implementazione occupazionale a medio-lungo); le derive di propagandiamo/manipolazione/omissione a cui si presta la gestione dei contenuti; la separatezza senza visione di insieme degli approcci legislativi.  Sono invece opportunità: il consolidamento del paradigma della libertà (nessi tra potere, società, democrazia);  il contributo alla velocità dei processi di crescita e di sviluppo; l’attivazione dei processi virtuosi di investimento e di attrattività; la catena stretta tra sapere/fare/saper fare; la creazione di nuove figure professionali che chiedono un tempo di sperimentazione e un tempo di consolidamento.

Anche se la parte prevalente della mia esperienza è stata nel management del settore (sia in istituzioni che in aziende e in associazioni della gestione del “dibattito pubblico”) il tratto più recente è stato dominato dall’impegno universitario. Insegno (una delle mie due materie)  Politiche pubbliche per le comunicazioni, che come dice l’espressione, non fissa l’attenzione tanto sulla norma quanto sul negoziato, sul confronto e sulla concertazione per definire i contorni o superare l’obsolescenza delle regole.  Introducendo il manuale che ho  curato in “Politiche pubbliche per le Comunicazioni” il professor Enzo Cheli – che ha dedicato la sua vita professionale e scientifica al rapporto tra il diritto e le comunicazioni – ha scritto:

“In Italia non abbiamo mai avuto vere e proprie politiche pubbliche per le comunicazioni. Il settore, nel nostro paese, si è sviluppato per forza spontanea del mercato senza regole pre-determinate, con i poteri pubblici che si sono limitati  registrare ex post  fatti ormai accaduti. Non c’è stata insomma una vera politica preventiva per orientare i processi accennati. C’è stata piuttosto una ricognizione successiva di eventi su cui il legislatore interveniva per fissare equilibri in realtà già determinati”.

Il peso di queste parole – che valgono tuttora – ci dicono che nel nostro sistema c’è ancora purtroppo separatezza delle normative, che l’integrazione non è stata favorita, che la strategicità del settore non è stata condivisa, che le “politiche pubbliche” sono state a rimorchio e non al traino.

Questa è la condizione generale di crisi attorno a cui noi oggi pensiamo che ci sarebbero ragioni oggettive per trovare, nel paese e in Europa, inversioni di tendenza.

Una sorta di patto tra i quattro attori principali del sistema (istituzioni/imprese/soggetti del lavoro/ sistema formativo) comporterebbe ora  convergenza di metodo.

Non so se da questo nostro incontro nascono incoraggiamenti. E’ certo che l’esposizione del Sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli si colloca nello spirito della ricerca di queste condizioni. Lo si capisce meglio proprio pensando alla realtà sia dei nodi europei che di quelli italiani.

Nel negoziato sulle competenze a Bruxelles noi  abbiamo scelto la politica estera, la Germania ha scelto la competenza Economia digitale e società con Günther Oettinger, già commissario all’Energia. Non faccio alcuna ironia in questo paragone. Stimo che l’Italia avrebbe grandi potenzialità di ruolo soprattutto nel sistema delle crisi euro-mediterranee. Dico solo che i tedeschi hanno puntato tutte le carte su questo settore che è quello in cui lo stesso Juncker dice di giocare il grosso della sua partita. La partita è quella di una governance che ha un preannuncio di forte discontinuità anche se non è ancora cominciata, tanto è vero che a Milano si riuniscono informalmente i 28 ministri con la commissaria uscente Neelie Kroes, che non lascerà una tracia indelebile nel posizionamento dell’Europa nell’evoluzione globale di internet. Come si sa il punto nodale è quello di certe sudditanze ai colossi dell’industria digitale americana. Tra i 28 ci sono paesi che saranno all’altezza e paesi che non saranno all’altezza.  Ma ci ha detto oggi Giacomelli – pur con la giusta prudenza di chi coordina un tavolo complesso – che “non è auspicabile una rete in cui si parli un solo linguaggio culturale”; così come ci ha detto che “la rete non si prefigura solo come uno spazio commerciale”;  e, ancora, che con la “globalità ci si misura stando all’altezza delle sfide non con provvedimenti protezionistici”.  Non ci resta che aspettare la fine del semestre di presidenza italiano per capire come questo posizionamento entrerà dalla parte giusta nella svolta di indirizzo della Commissione.  Un governo entrato in carica alle soglie del “semestre” ha certo colpe limitate rispetto al pregresso, ma l’adeguatezza del nostro presidio istituzionale è ormai confinato in un limitato segmento di ministero che non ci fa comprendere  se  i dossier siano stati predisposti in modo da lasciare segni tangibili non solo nella convegnistica ma soprattutto nelle decisioni assunte in sede di Consiglio UE. Tedeschi e americani ormai mettono il tema nelle priorità di ogni narrazione interna. E si apprestano ad applicare leggi già fatte per accompagnare la  legislazione (di qualunque settore) con l’impatto in internet (e viceversa). E’ solo uno spunto per  apprezzare il primo  posizionamento del governo ma per sperare in accelerazioni sulle questioni già accennate: adeguatezza, strumentazione, coerenza legislativa, concertazione di sistema, eccetera. Sperando anche che certe insofferenze del premier per il dialogo paziente  con sindacati e imprese siano tenute a bada.

E per quanto riguarda la legislazione la fotografia resta quella scattata dal prof. Cheli: condizioni di marginale strategicità e di separatezza degli indirizzi normativi dei comparti in cui hanno lucrato – dobbiamo dircelo – ambiti di imprese di organizzazione del lavoro, per le condizioni protette ovvero di rendita di una condizione di stagnazione degli interessi e di margini non fisiologici rispetto alle ragioni della crescita e della competitività. E’ anche evidente che siamo usciti da questo impasse, cioè che le premesse politiche e culturali per riprendere il cammino della “visione legislativa unitaria” si è aperto.

In materia di digital divide, una breve chiosa. Alcuni dicono che la battaglia è ormai di retroguardia. Perché i processi regolati dalla banda larga satellitare non comportano più sofferenze sistemiche ma solo di accesso e di fruizione. Non lo so e non ho tutte le competenze per dire questo. Ma mi parrebbe sbagliato cancellare un’agenda di mobilitazione culturale, formativa e professionale – territorio per territorio, appartenenze per appartenenze – che è immaginata per sradicare disattenzioni e costruire nuovi comportamenti, tra cui quello dell’approccio critico ai consumi informativi.  La materia è certamente quella di patto. Ma solo se ci applichiamo misuratori ineludibili legati a risultati premianti o comunque responsabilizzanti. E qui ho solo da ascoltare ciò che osservatori di esperienza sono disposti ad aggiungere alla nota retorica sui ritardi.

In materia di processi formativi, sento – come tanti operatori che hanno creduto nella modernizzazione possibile anche grazie  ai corsi di laurea in Scienze della Comunicazione – il peso di alcune responsabilità.  E’ mia convinzione che senza rapporti stretti (di ricerca applicata, di fruizione didattica, di organizzazione della sperimentazione) con il mondo dell’impresa e del lavoro questi percorsi universitari rischiano di navigare con la fragilità di avere solo un’interfaccia burocratica. Che sa poco del rapporto esistente tra sapere e fare. Io ho provato a incidere un poco nel campo della ricerca applicata e della specializzazione. Accorgendomi che l’Università ha a cuore più l’egemonia dei raggruppamenti disciplinari, delle gerarchie accademiche e della compilazione di testi che graduano le fonti spesso solo sulla base delle garanzie connesse ai concorsi. E’ così e lo posso dimostrare al millimetro. Così abbiamo ottenuto che gli insegnamenti sulla comunicazione siano rimasti in un quadro neo-umanistico mentre quelli sulle comunicazioni sono confluiti nel quadro politecnico. Rompendo noi per primi una evidente esigenza di integrazione.  Se aggiungiamo le baronie professionali (non ci sono solo quelle accademiche!) che continuano a dire – stupidamente – che queste sono fabbriche di disoccupati (così come negli anni scorsi si vantavano di imparare a bottega facendo a meno delle università), se aggiungiamo che le relazioni internazionali di sistema in questo campo sono fragili, se aggiungiamo che la domanda di ricerca (istituzioni e imprese) è stata tagliata drasticamente, dobbiamo solo sperare che un “patto” tra i soggetti qui rappresentati tenga conto in dovuto modo di questo punto.

La fase conclusiva del semestre di presidenza italiana coinciderà con l’avvio della nuova Commissione a Bruxelles. Credo sia necessario uno sforzo enorme. Anche la rete delle autorità di controllo e garanzia (che forse dovrebbe pensare presto alla sua europeizzazione) dovrebbe dare un contributo nella direzione della sfida che il governo ci sta comunicando con un certo coraggio. Il progetto sulla modernizzazione della Rai nella direzione della sua glocalità (piedi nel paese, occhi nel mondo) e della integrazione tv-web, è parte di questa sfida pur non essendosi ancora sentiti meditati spunti progettuali al riguardo.

Siccome stiamo subendo il fascino dell’annuncio quotidiano, la suggestione dell’idea di “una riforma al giorno”, la sorpresa della costruzione di una velocità comunicativa  nell’offerta di governo – lo disco non in modo sarcastico, perché da un certo punto di vista questo era anche un clima invocato – la domanda che conclusivamente pongo a me stesso e agli interlocutori di questo tavolo è quella del punto di collocazione del tema  (che l’Europa di Juncker e Oettinger  ha deciso di mettere al primo posto)  nella nostra agenda politica. Un giorno si legge che al primo posto c’è la Scuola, un altro giorno si legge che c’è la Politica estera, un altro giorno si legge che è l’Occupazione, un altro ancora che è l’Attrazione degli investimenti, un altro giorno che è l’Italicum. So che tutto si lega. Ma so anche che passare dal primo al quinto/sesto posto – nell’agenda di un paese democratico – vuol dire passare dal primo al quinto/sesto posto della quantità di messaggi investiti e di denari spesi. Non ha senso parlare di “patto” se non si sa se il patto che si stringe serve alla serie A o alla serie B o alla serie C della politica.