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Musica in streaming, luci e ombre per un settore che vale 16 miliardi di dollari

Una ricerca di Nielsen sul settore musicale indica una crescita dei servizi audio streaming on demand negli Stati Uniti del 58,7% rispetto al 2016 e rappresenta il 57% del consumo totale di file audio. L’IFPI Global Music Report 2017 ci ricorda che nel 2016 il settore musicale è cresciuto del 5,9%, mai così tanto dal 1997 (inizio del monitoraggio da parte di IFPI), per un totale di 15,7 miliardi di dollari. Per la prima volta il mercato digitale vale la metà dei ricavi.

Si parla di cifre lontane da quelle del periodo pre-crisi, quando il settore muoveva 26,8 miliardi di dollari (correva l’anno 1999), ma che detta sicuramente una grossa tendenza: la vittoria dello streaming sulle altre forme di ascolto. Un business che, partito gratuitamente, oggi trova un riscontro nella maggiore disponibilità a pagare da parte degli utenti. E infatti gli abbonati a servizi streaming quali Spotify, Apple Music, Tidal, Tencent (localizzato in Cina) sono stati 112 milioni. Ma il dato che salta maggiormente all’occhio è una crescita dei ricavi del 60,4%, contro un calo degli introiti sui download del 20,5% e sui supporti fisici del 7,6%. Vale a dire, anche la musica conferma un trend già manifesto in altri settori come l’audiovisivo, in cui l’accesso prevale sul possesso. Un dato che permette di essere ottimisti sul futuro dell’intero settore che varrà 41 miliardi di dollari nel 2030 secondo Goldman Sachs. Lo streaming continuerà a spadroneggiare e varrà 34 miliardi di dollari, di cui 28 deriveranno dagli abbonamenti, che coinvolgeranno in totale 847 milioni di utenti, e i restanti 6 dall’inserimento di inserzioni pubblicitarie durante l’ascolto. Il mercato della musica dunque va sempre più verso la rete, relegando i supporti fisici a collezionisti e nicchie di ascoltatori.

A rendere possibile tutto questo, l’esplosione di soggetti che fino a pochi anni fa neppure esistevano e che oggi competono con case discografiche che hanno fatto fatica a svecchiarsi, ma che oggi stanno cercando di cavalcare il cambiamento.

Da un lato dunque, abbiamo operatori come la svedese Spotify, che, dal 2006, anno di fondazione, ha rivoluzionato il modo di ascoltare la musica attraverso lo streaming. Oggi la società, grazie ad uno scambio azionario con i cinesi dell’Internet Tencent, varrebbe almeno 20 miliardi di dollari (erano 8,5 nel 2015), una cifra enorme se si pensa al valore dell’intero settore censito dal IFPI. Spotify, che a primavera potrebbe debuttare a Wall Street, vanta ben 70 milioni di abbonati e 140 milioni di utenti in 61 paesi, per un fatturato di 3,3 miliardi di dollari e perdite per 600 milioni.

Dall’altro abbiamo le grosse major musicali, come Universal Music Group e Sony Music, che valgono rispettivamente 23,3 e 19,8 miliardi secondo Goldman Sachs, le quali, superati i tempi in cui subivano il cambiamento (risale agli anni 2000 la battaglia contro il file sharing illegale di Napster), oggi si accordano con Facebook per la condivisione di musica da parte dei propri utenti.

Un settore, quello della musica, che ingolosisce anche i colossi hi-tech, come dimostra l’acquisizione di Shazam da parte di Apple, conclusasi a fine anno, operazione costata 400 milioni di dollari; o l’acquisizione, conclusasi poco prima per 70 milioni, di United Master, start up che offre ai musicisti un’alternativa alle grandi case discografiche, distribuendo musica via web attraverso le piattaforme di streaming e via YouTube, da parte di Alphabet (Google).

Il gruppo Alphabet ha inoltre stretto accordi con Universal, Sony e Warner per il lancio del proprio servizio di streaming a pagamento: YouTube Remix. Non è la prima volta che Google tenta un approccio a pagamento per i propri servizi di intrattenimento musicale: ci ha provato con Google Play Music nel 2011 e con Music Key nel 2014, soppiantato nel 2016 da YouTube Red che permette di salvare offline e di riprodurre in background qualunque video presente sulla piattaforma, il tutto senza pubblicità. I servizi, tuttavia, lanciati per competere con Spotify e Apple non hanno avuto il successo sperato. Eppure, l’IFPI ha fotografato una situazione tutt’altro che sfavorevole al gigante di Mountain View: 1,5 miliardi di persone si collegano ogni mese a YouTube, il quale ha 8 volte gli utenti di Apple Music e Spotify messi insieme e l’85% (1,3 milioni di utenti) usa la piattaforma per ascoltare la musica gratuitamente. YouTube Remix, che dovrebbe essere disponibile da marzo, servirebbe a tranquillizzare artisti e produttori sulla possibilità di monetizzare maggiormente i propri sforzi rispetto a quanto avviene con la semplice introduzione di pubblicità. Il nuovo servizio unirebbe il modello Spotify, ovvero la possibilità di ascoltare musica in streaming on demand, al punto di forza di YouTube, vale a dire i videoclip.

Similmente, Amazon ha lanciato Music Unlimited, disponibile negli States dal 2016 e anche in Italia dallo scorso autunno, che mette a disposizione un catalogo con più di 50 milioni di canzoni, centinaia di playlist e radio personalizzate.

L’Italia appunto. Il rapporto Connecting with music mostra un mercato altrettanto dinamico: il 46% degli utenti italiani ascolta legalmente musica in streaming (il dato globale è del 43%), in aumento di 6 punti percentuali rispetto al 2016, il 98% degli utenti online ascolta musica in licenza.

E non mancano iniziative importanti sul mercato. Una di queste è Soundreef, società che opera in Italia nella raccolta dei diritti d’autore che ha iniziato a scardinare il monopolio della SIAE. Un’idea tutta italiana che è partita a Londra nel 2011 e che oggi opera in più di 20 paesi con un repertorio di oltre 25mila autori e editori di cui 11mila solo a casa nostra. Ma sono tante le start up che hanno scelto di sfondare nel mondo della musica con idee originali. Musixmatch, enorme catalogo di testi di canzoni sincronizzati con le tracce musicali fondato nel 2010; Musicraiser, vetrina virtuale per i musicisti che vogliono farsi conoscere e finanziare con il crowdfunding; Mogees, che ha sviluppato un software che converte le vibrazioni degli oggetti in musica trasformando di fatto qualsiasi oggetto in strumento musicale.

Un grande dinamismo che pone una questione piuttosto importante, ovvero quello della valorizzazione della musica, che, in soldoni significa una distribuzione più equa dei ricavi tra le piattaforme di streaming e titolari dei diritti. Un problema che riguarda i soliti noti: YouTube e Facebook nella misura in cui il social network di Zuckerberg si lancerà nel settore musicale. Le piattaforme di user generater content, per la loro collocazione giuridica che pone dei limiti alla responsabilità degli intermediari, si relazionano con i titolari dei diritti in modo differente rispetto a servizi tipo Spotify: alcune stime parlano di  un dollaro ogni mille stream per YouTube contro i 7 pagati da Spotify.

YouTube, che da sola copre il 25% del mercato, si difende sostenendo che senza la piattaforma video l’85% degli utenti migrerebbe verso un’alternativa pirata. Tuttavia un altro studio ha quantificato il value gap generato da YouTube in oltre 650 milioni di dollari solo negli Stati Uniti.

In Italia, si stima che in assenza di YouTube, l’87% degli utenti finirebbe verso alternative pirata o a basso valore, ma il restante 13% si rivolgerebbe alle alternative streaming premium, generando, per il mercato italiano dello streaming ricavi per 26 milioni di euro e un incremento del segmento streaming premium del 41%.

Dopo una lunga e tormentata negoziazione nelle prossime settimane dovrebbe vedere la luce la nuova direttiva europea sul copyright: l’auspicio è che le nuove regole siano a “prova di futuro” e soprattutto riescano a sciogliere efficacemente il nodo del value gap per puntare ad una crescita più equilibrata del mercato.

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