la battaglia

Musica digitale, major contro YouTube: ‘Content ID ci fa perdere milioni’

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Universal, Sony e Warner contro YouTube: il sistema Content ID non è efficace nell'identificare la musica caricata senza autorizzazione.

Anche se lo streaming è ormai il traino dell’industria musicale, guardare video su internet o dal telefonino, gratis, è il più popolare metodo di consumo di musica digitale.

Musica che però è spesso caricata online illegalmente, senza che – cioè – artisti e detentori dei diritti siano adeguatamente remunerati.

A nulla valgono i sistemi come Content ID lanciato da YouTube per identificare questi contenuti illeciti. Così la pensano, almeno, Universal Music Group, Sony Music e Warner Music Group, le tre principali etichette discografiche mondiali.

Le tre major hanno aperto un nuovo fronte contro quella che è diventata la principale piattaforma mondiale di video-streaming, appellandosi allo US Copyright Office per far valere la loro tesi sull’inefficacia del sistema Content ID.

Content ID è il software creato da YouTube per identificare la musica caricata sul sito senza autorizzazione e per offrire ai detentori dei diritti la possibilità di bloccare o monetizzare quei contenuti. Ma secondo le major, il sistema avrebbe le maglie troppo larghe.

Secondo Universal, la principale etichetta mondiale, di proprietà di Vivendi,  più del 40% dei contenuti illegali su YouTube non viene identificato.

Sony sostiene di aver perso quantificato in quasi 8 milioni di dollari i ricavi persi per via dei contenuti di sua proprietà che Content ID non è in grado di scoprire su YouTube.

Accuse che YouTube respinge al mittente: secondo la piattaforma di proprietà di Google, Content ID ha una percentuale di affidabilità del 99,5% e circa il 50% dei soldi che il sito verso all’industria arriva da video identificati attraverso il sistema Content ID.

Anche se fosse soltanto lo 0,5%, replicano le major, sarebbero comunque milioni di dollari persi e non è accettabile.

Questo nuovo fronte si apre non a caso. Quest’anno, infatti, dovranno essere rinnovati i contratti tra le major e YouTube. Il sito, a differenza di molti servizi di musica in streaming, non ha mai ceduto al pressing delle major in quanto a remunerazione dei contenuti. Secondo Jimmy Iovine, patron di Apple Music, il 40% del consumo mondiale di musica passa da YouTube, che però contribuisce ai ricavi dell’industria all’altezza del 4%.

Ecco perché le major ora vogliono che il rinnovo dei contratti sia per loro più vantaggioso di quanto ottenuto finora e chiedono sia alla Commissione europea che allo US Copyright Office che YouTube non sia più considerato un hosting passivo, ossia un servizio che mette a disposizione dei propri utenti uno spazio sul web. La ‘passività’ è infatti retaggio del web degli albori, ma ora, dal momento che YouTube i contenuti li organizza, li indicizza e ci guadagna attraverso la pubblicità, è giusto anche che questo status venga modificato e la piattaforma venga equiparata ai servizi come Spotify o Apple Music, che pagano le royalty alle etichette discografiche.