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Much more than Letta e Vestager: le vere sfide che l’Europa deve affrontare

Le Telecomunicazioni sono un settore in continua evoluzione, che richiede innovazione e adattamento alle nuove sfide e opportunità. Tuttavia, non dobbiamo tutte le volte inventare la ruota, ma sfruttare le esperienze e le buone pratiche già esistenti. 

L’occasione per la discussione sul sistema delle Telco in Europa ci viene offerto da un passaggio del lavoro di Enrico Letta e del Jacques Delors Institute in merito ad un presunto eccesso di concorrenza nel settore. L’opinione ripetutamente espressa dalle big-telco è che “Il consolidamento in-market come trampolino di lancio verso quello cross-border, lo snellimento della regolamentazione, la revisione delle regole sulla Net Neutrality” sono un passaggio necessario per recuperare la sostenibilità perduta tra investimenti asfittici e guerra dei prezzi.

Personalmente non condivido nessuna delle tre proposte: digital single market, regolamentazione dell’accesso e net neutrality sono tutti elementi di un puzzle complesso che è facile da distruggere ma è difficilissimo da ricomporre.

Gli Stati Uniti hanno reintrodotto le regole sulla net neutrality dopo che Trump le aveva cancellate. Un grande lavoro di rammendo che la FCC statunitense sta compiendo per ricostruire un mercato scomposto come quello USA che si caratterizza per l’assenza di un set di controlli di trasparenza, accesso infrastrutture, sicurezza, privacy e perfino di sovranità. E’ la stessa agenzia di regolazione americana a scriverlo in una recente opinione. Solamente oggi, finalmente, gli Stati Uniti hanno un “broadband facts”, un’etichettatura delle connessioni.
Noi abbiamo:
1) carta dei servizi
2) trasparenza tariffaria
3) trasparenza tecnica
4) indicatori di qualità
5) sintesi contrattuale
6) bollini di velocità e altro. Sono troppe regole? Discutiamone.

Stravolgere da noi in Europa la disciplina di Open Internet, è funzionale solo a chiedere i soldi ai fornitori di servizi con il cosiddetto fair share, uno strumento distorsivo ed inutile che vorrebbe portare il mercato a concentrarsi e non creerebbe vantaggi. 

Si parla poi di “consolidamento in-market”. Ecco, giova ricordare che in Italia le imprese sono sempre state contendibili, come ci dimostra la stessa storia di TIM che si è aperta prima al dominio spagnolo di Telefonica e poi a quello francese di Vivendi. E ora cede il suo asset più importante a KKR e ad un fondo di Abu Dhabi.

Le fusioni anti-crisi avverranno indipendentemente da una volontà politica e non rappresentano da sole un piano industriale. Swisscom che ha favorito l’acquisto di Vodafone Italia per fonderla con Fastweb ha un piano industriale. Eolo con le frequenze millimetriche 26Ghz ha un piano industriale. Il “consolidamento” non è un piano industriale. E’ tendenzialmente una funzione.

Partendo dal famoso White Paper su cui pure si è discusso, esso non mostra nessuna apertura della Commissione Europea alle fusioni tra operatori telefonici in diversi Stati Membri, all’opposto UE si domanda se consentirle possa creare un danno nel mercato a valle. Si legge infatti: “Secondo alcuni operatori non ci sono ostacoli se non il saldo netto delle operazioni di consolidamento dovuto alla frammentazione delle regole in mercati geografici diversi”. Le big-telco quindi si pongono il tema del consolidamento ma si domandano pure come fare a operare dall’Italia sul mercato tedesco. 

Nessuna prova suggerisce che mercati nazionali più concentrati portino a risultati migliori”, ha detto la commissaria Vestager in una recente Conferenza a Bruxelles. “Al contrario, porterebbe a mercati nazionali meno competitivi e a un mercato unico più frammentato”. 

Quindi occorre fare uno sforzo e togliere tutta la patina di luoghi comuni che ci impedisce oggi di vedere i veri problemi del mercato, capirli, per poi poter proporre soluzioni efficaci.

Un esempio è lo switch off del rame, ovvero lo spegnimento delle vecchie linee telefoniche in rame con l’avanzare delle nuove reti in fibra ottica, che garantiscono maggiore velocità e qualità dei servizi. Questo processo è passato da essere un tema competitivo, dove si temeva la preemption, ovvero l’occupazione anticipata delle infrastrutture da parte di un operatore dominante, a un tema di take up, ovvero la diffusione e l’adozione delle nuove reti da parte degli utenti finali. L’unico modo per incentivare lo switch off del rame è mettere incentivi stabili alla domanda, per esempio attraverso sconti, bonus o agevolazioni fiscali. Stabilire in modo disarmonico una data non può cogliere le esigenze specifiche del mercato che non è ancora raggiunto dalle reti ultraveloci.

Un altro esempio è il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che prevede ingenti investimenti pubblici per lo sviluppo delle reti di telecomunicazioni, in particolare per il 5G e la banda ultralarga. Tuttavia, il PNRR ci ha insegnato che non bastano i soldi, perchè le risorse economiche sono solo una precondizione se poi manca la capacità produttiva di sviluppare reti. Infatti, occorre anche una pianificazione strategica, una semplificazione normativa, una collaborazione tra gli attori del settore e una visione di lungo termine. Non credo che sia così utile uno “stratagemma” per coprire civici adiacenti se poi si lasciano indietro i cittadini a cui era diretto l’aiuto di Stato. 

Un tema su cui ci si interroga spesso, non solo in Europa, è quello sulla sovranità delle tecnologie che consentono la trasmissione di dati e segnali. Ma chi produce gli apparati radio? Certamente non l’Europa, che ha perso il primato in questo campo a favore di paesi come la Cina e gli Stati Uniti. Ci si meraviglia che nei consessi radio internazionali, come il CEPT (Conferenza Europea delle Amministrazioni Postali e delle Telecomunicazioni), ci siano rappresentanti non-europei, che possono influenzare le decisioni sullo spettro radio, una risorsa strategica e limitata. Sul tema radio, prima ancora che la sicurezza degli apparati, conta che le aste per l’assegnazione delle frequenze siano investment friendly, ovvero che non siano troppo onerose o restrittive per gli operatori, altrimenti si rischia di compromettere la qualità e la copertura dei servizi. 

Operatori satellitari, sì a una regolamentazione specifica

C’è infine scarsa attenzione per gli operatori satellitari, che stanno lanciando migliaia di satelliti in orbita bassa per offrire servizi di internet satellitare a banda larga in tutto il mondo. Non li abbiamo visti arrivare e ora dobbiamo fare i conti con le loro implicazioni per lo spettro radio, per la sicurezza dello spazio, per la concorrenza con le reti terrestri e per la tutela dell’ambiente. Il White Paper dedica loro poche righe e non li problematizza.  Quindi si procede per analogia riportando la regolazione attuale – laddove applicabile – anche ad Internet via satellite, ma si fa fatica ad inquadrare molte questioni (reti VHCN, open internet, qualità dei servizi, tutela utenti, adempimenti obbligatori, servizio universale, sussidi e aiuti di stato). Principalmente nell’impianto attuale c’è una distinzione tra fisso e mobile, poi si procede con servizi ibridi FWA. Il satellite per anni è stato escluso potrei dire “a priori” dalla regolamentazione. Arrivato in Europa con la forza disruptive di Big Tech (non solo Starlink ce ne sono altri e hanno iniziato a “fare amicizia” tra loro), l’Europa come al solito sta riflettendo su cosa fare e si sta dividendo. C’è chi dice che basta la regolazione attuale. Chi ne chiede una specifica come l’Italia. La Germania come al solito sta molti passi avanti. La Svezia e la Grecia pure. Io sono per una regolamentazione specifica. Nelle more servirebbe un tavolo interistituzionale con Agcom, AGCM, Garante Privacy, ma guida Antitrust come fu per il caso Dazn. Questo perché l’asimmetria applicativa degli obblighi regolamentari ha riflessi immediati sul mercato e sulla competizione.

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