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Meta, X e LinkedIn contro l’Agenzia delle Entrate italiana per l’IVA. Un precedente per il fisco Ue?

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L’iscrizione gratuita a piattaforme come Facebook, Instagram, X e LinkedIn, in cambio della cessione dei dati personali dell’utente, costituirebbe una “prestazione rilevante ai fini IVA”.

Lo scontro tra la nostra Agenzia delle Entrate e le Big Tech per l’IVA

Meta, X (ex Twitter) e LinkedIn si trovano coinvolte in una battaglia legale per l’IVA senza precedenti con il fisco italiano, che potrebbe avere implicazioni profonde per l’intero sistema fiscale dell’Unione europea (Ue).

Per la prima volta, secondo quanto riportato dalla Reuters, l’Agenzia delle Entrate italiana ha deciso di portare avanti un processo tributario vero e proprio, non riuscendo a trovare un accordo transattivo con i colossi tecnologici americani.

Al centro della disputa: l’applicazione dell’IVA (Imposta sul Valore Aggiunto) ai servizi online offerti gratuitamente agli utenti.

Perché l’Italia chiede l’IVA a Meta, X e LinkedIn?

La tesi dell’Agenzia delle Entrate è audace, ma destinata a fare scuola: l’iscrizione gratuita a piattaforme come Facebook, Instagram, X e LinkedIn, in cambio della cessione dei dati personali dell’utente, costituirebbe una “prestazione rilevante ai fini IVA”.

In pratica, il valore di mercato di questi dati – poi monetizzati attraverso pubblicità profilata e servizi premium – rappresenterebbe una forma di pagamento non monetaria, dunque tassabile come qualsiasi altra transazione commerciale.

In questo quadro ricordiamo le richieste notificate dall’Italia alle note Big Tech, neanche tanto impegnative per queste società (considerando i loro esorbitanti fatturati annui o ancora di più il valore di capitalizzazione di mercato):

Le aziende hanno tutte fatto ricorso alla giustizia tributaria italiana a metà luglio, dopo che è scaduto il termine per contestare le cartelle esattoriali emesse a marzo.

Al di là delle cifre, lo sottolineiamo del tutto irrisorie rispetto ai flussi di cassa di questi giganti tecnologici, è la motivazione, come ben spiegato da Michele Mezza sulle pagine di Key4biz qualche tempo fa: “Per la prima volta un autorità amministrativa batte alla porta dei proprietari delle piattaforme colpendo al cuore il loro modello di business, ossia quel prodigioso gioco di illusionismo commerciale per cui la stratificazione di quantità enorme di informazione su gli utenti dei social diventavano oro puro, o meglio petrolio, per rimanere all’abusata metafora, che trasformava ogni strategia pubblicitaria in una conversazione diretta con ogni singolo navigante on line“.

Perché le Big Tech si oppongono?

Meta ha risposto a Reuters di non ritenere corretto applicare l’IVA all’accesso gratuito delle piattaforme online. Sottolinea, inoltre, di aver sempre cooperato con le autorità fiscali nazionali ed europee. LinkedIn si è limitata a un “nessun commento”, mentre X non ha risposto.

Dietro questa opposizione, c’è la volontà di evitare un precedente che potrebbe rivoluzionare il sistema fiscale digitale globale.

Se la posizione dell’Italia venisse confermata, tutte le aziende – dai supermercati online alle compagnie aeree – che offrono servizi gratuiti in cambio di profilazione utente o cookie potrebbero essere obbligate a versare l’IVA.

Impatto potenziale sull’Europa e sugli equilibri transatlantici

Il caso italiano arriva in un momento geopolitico delicato. I rapporti tra Bruxelles e Washington sono tesi, con le politiche tariffarie aggressive di Donald Trump, che rendono sempre più concreta una guerra commerciale USA-EU.

Anche per questo, Roma si sta muovendo con cautela. Ha annunciato l’intenzione di chiedere un parere consultivo alla Commissione europea (tramite il VAT Committee), la cui opinione – pur non vincolante – potrebbe influenzare il prosieguo del processo e determinare se abbandonare o meno l’azione legale.

Il prossimo passo sarà la presentazione delle domande formali entro ottobre-novembre 2025, per ottenere un riscontro dall’Unione europea entro la primavera 2026.

In ballo c’è sempre il difficile rapporto tra Stati sovrani e piattaforme

Il caso rappresenta una svolta storica per il fisco europeo. Se l’interpretazione italiana venisse legittimata, potrebbe innescare una nuova forma di tassazione sulle Big Tech per i servizi “gratuiti”, colmando una storica lacuna normativa.

Allo stesso tempo, potrebbe aggravare le tensioni tra UE e USA, con i giganti americani che già accusano l’Europa di agire per protezionismo digitale mascherato da regolamentazione.

In gioco non c’è solo l’IVA, ma il futuro del rapporto tra Stati sovrani e piattaforme globali. Una nuova frontiera del potere fiscale si sta aprendo: e l’Italia, questa volta, fa da apripista.
Il nostro Paese avrà il coraggio di portare avanti un approccio di questo tipo, anche alla luce della natura dei rapporti attuali tra il Governo Meloni e l’amministrazione Trump?

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