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Mediaset, il cuore del problema nel dopo elezioni

Marco Mele

Le elezioni hanno cambiato anche le prospettive dello scenario riguardante il sistema industriale dei media e delle comunicazioni.

Prima delle elezioni, Mediaset era, secondo molti osservatori, pronta a conquistare una nuova centralità in tale sistema. La vittoria del centrodestra, sotto lo stendardo di Silvio Berlusconi e della sua azienda-partito (il partito-azienda è un’invenzione giornalistica) avrebbe portato a un ridimensionamento della Rai. Prima di tutto limitando la raccolta pubblicitaria di Rai1 a favore di Canale 5, secondo gli esposti presentati da Mediaset all’Agcom. A capo di Rai Pubblicità sarebbe andato un manager scelto dal Pd renziano, ma concordato con Berlusconi: basta con il dumping dell’era Piscopo – che ha “massacrato” gli altri mezzi più che Publitalia – a favore di prezzi informalmente concordati tra le due maggiori concessionarie. E basta con quel 4% di affollamento pubblicitario settimanale che la Rai applica sulla media delle tre reti generaliste per poter fare il 6% su Rai1.

Mediaset, con la vittoria del centrodestra a guida berlusconiana, si sarebbe poi trovata in una posizione di forza rispetto a Vivendi, con Bollorè costretto a una pace onerosa, sotto forma del prezzo pagato da Tim per i contenuti di Mediaset: 460 milioni di euro, calcio escluso. E magari una fusione TIM-Mediaset dopo la separazione della rete del gruppo telefonico.

Una Mediaset che sarebbe stata più forte anche su due fronti strategici per il gruppo televisivo: quello dei diritti del calcio di serie A, dopo che le coppe europee sono  passate a Sky dal prossimo triennio, e quello delle frequenze, con l’abbandono della banda 700 da parte delle televisioni per far posto all’asta per la banda larga mobile secondo un calendario disegnato dal governo Gentiloni, seguendo le scadenze imposte dall’Unione europea. Per finire, la possibilità concreta di una fusione EITowers-RaiWay per costituire un polo nazionale delle torri di trasmissione, inglobando anche Persidera, non si sa con quale neutralità rispetto agli altri gestori di multiplex televisivi.

Il problema è che le elezioni le ha vinte la Lega Nord, non il centrodestra, insieme al Movimento Cinquestelle. Lo scenario è cambiato e non a caso la Borsa ha immediatamente penalizzato le azioni Mediaset non appena conosciuto l’esito del voto.

Ora Berlusconi e la sua azienda-partito sono più deboli. Hanno ancora diverse carte da giocare, certo, ma aumentano i pericoli in agguato dietro l’angolo (quello di Maurizio Costanzo..). A cominciare dalle piccole cose: la nomina del nuovo amministratore delegato di RaiPubblicità è bloccata, come tutta la Rai, in attesa del nuovo esecutivo e della maggioranza che lo sosterrà. La concessionaria resta in mano, temporaneamente, ad Antonio Marano, leghista, sia pure di osservanza maroniana.

Sul fronte Vivendi, c’è la novità rappresentata dal fondo statunitense Elliott, lanciato alla conquista di TIM in contrapposizione al gruppo guidato da Bollorè. Un “amico americano” per Mediaset? Lo sostengono alcuni commentatori, che ne ricordano l’intervento finanziario nella “vendita” del Milan ai cinesi. I fondi americani, in realtà, hanno come bussola gli interessi dei propri azionisti. Non sarebbe una sorpresa se questa fase portasse ad un indebolimento sia di Mediaset, sul fronte politico – si pensi a quante leggi e provvedimenti delle Authority sono state condizionate dagli interessi del gruppo – sia di Vivendi, sul fronte industriale. Magari non su quello finanziario, se rientrassero una parte dei capitali spesi per TIM e Mediaset.

L’effetto potrebbe essere un ravvicinamento tra i due gruppi europei, finora contrapposti sul fronte giudiziario, anche senza un accordo sui contenuti tra TIM e Mediaset, in attesa di capire chi comanda in TIM. Si può ipotizzare un ingresso “amichevole” del gruppo francese in Mediaset, cda compreso. Un’ipotesi come tante, che dovrebbe scontare un confronto con i vincitori delle elezioni, perchè su Mediaset esiste una golden power invisibile, non dichiarata, per preservarne il controllo italiano: ne costituisce un’evidenza esplicita la delibera dell’Agcom che ha imposto a Vivendi di ridurre la propria quota azionaria in Mediaset (o in TIM); per calcolare il totale del settore delle comunicazioni elettroniche sul quale calcolare la quota di TIM, non è stata inclusa la spesa per la telefonia mobile  degli utenti. Una cosa, però, è se al Governo avesse un ruolo di primus inter pares il principale azionista di Mediaset tramite Fininvest. Un’altra è se, nel caso, al Governo riuscissero ad andarci Lega e Cinquestelle o, comunque, che Forza Italia vi avesse un ruolo marginale. Il vertice Rai si rinnova a luglio di quest’anno, il consiglio dell’Agcom al luglio dell’anno successivo: l’esecutivo e i rapporti di forza nelle due Camere vi avranno un “peso” determinante.

Mediaset può ancora giocare la sua partita: ha quasi il 60% della pubblicità televisiva con poco più del 30% degli ascolti, ha una library “infinity”, accumulata negli anni del duopolio, ha società di produzione, ha un reticolo di interessi comuni e/o relazioni con politici, di tutte le forze politiche, istituzioni, editori (la Mondadori ha espresso l’attuale presidente della Fieg), associazioni di settore, giornalisti e opinionisti. Ora però il sentiero si restringe, è necessario trovare nuove alleanze (Vivendi? Elliot? Sky?), in particolare per essere competitivi nello streaming on line, per rivedere alcune strategie, per trovare una soluzione a Premium, e, soprattutto, Mediaset deve rilegittimarsi agli occhi dei vincitori delle elezioni. Quest’ultimo è il compito più difficile, perchè Salvini e Di Maio certo non dimenticano i minutaggi dedicati alle loro forze politiche dai tg e dalle trasmissioni delle reti Mediaset prima delle elezioni, a tutto vantaggio di Forza Italia.

L’altra faccia della luna: Mediaset è un problema e un’opportunità per l’intero sistema Italia, per l’industria della comunicazioni e per quella dei contenuti, dalla fiction al cinema, per le altre emittenti televisive, per i produttori di beni a largo consumo, per la filiera pubblicitaria, per lo stesso immaginario nazionale che la tv commerciale, Rai inclusa, ha plasmato. Fino all’avvento della Rete.

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