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Mario Draghi, la congiura della Rete unica e il futuro dell’Italia nella Digital Age

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Va via un governo che si è reso responsabile del “complotto” sulla rete unica, mirato a smontare una società pubblica, invidiataci dal resto d’Europa e operante in un settore su cui gravano golden share, sicurezza nazionale e sovranità digitale, in favore di una società estera, per il 75% in mano a stranieri. Vanno via anche altri ministri che lasciano ben poco dietro di loro, ma che hanno contribuito a bloccare la crescita digitale del Paese.

Finisce l’incubo di governi senza maggioranze solide e in mano ad incompetenti privi di visione del futuro e di senso dello Stato.

Considerato che tutto ciò sta avvenendo in un momento di grave crisi sanitaria, economica e sociale (la cui gravità degli esiti è ancora, purtroppo tutta da scoprire), possiamo considerarci graziati, se stiamo ancora qui a parlarne.

Va a casa la maggioranza che ci ha governato nell’ultimo anno e mezzo e va a casa un premier nato dal nulla, con le sue pochette e i suoi modi apparentemente melliflui e cardinalizi, ma sostanzialmente orientato ad una gestione oligarchica del potere ispirato al Re Sole.

Arriva Mario Draghi, una persona seria che ci ha fatto onore sulla scena internazionale e che gode di stima e credito in tutte le cancellerie europee.

Non poteva andarci meglio e di questo dobbiamo essere grati al presidente Sergio Mattarella.

Ora occorre capire cosa succederà ad alcuni dei dossier in corso.

Dossier rete unica

Non intendiamo Autostrade, ILVA o Alitalia. Ci riferiamo in particola modo a quello della Rete unica. Più che un dossier è sembrato un “complotto”.

Nella tarda primavera del 2020 tutto sembrava andare in direzione della Rete unica in capo a TIM, contro ogni regola di buon senso, di mercato e contro le disposizioni competitive impresse dalla UE all’economia europea.

La parola d’ordine tra quasi tutte le forze politiche era: siamo d’accordo tra di noi, quindi si procede in quella direzione e se l’Europa obietterà qualcosa gli diremo che devono lasciarci fare.

Quindi sin da subito il governo ha fatto propria la proposta della rete unica, dando carattere di interesse generale al dossier. Facendo peraltro scelte discutibili e inedite nelle prassi ordinarie dei Paesi ad economia di mercato: ovvero mettendo il proprio cappello su un progetto di una impresa privata, che a sua volta invece di distinguersi dall’azione di governo, asseconda il disegno ripetendo sino allo sfinimento la frase magica della Rete unica come “…progetto che nasce sotto l’egida del governo…”.

Abbiamo così assistito, in tale contesto, a cose che voi umani non avreste mai immaginato.

Cosa è successo

Il premier Giuseppe Conte che, nello scorso agosto, entra a gamba tesa interrompendo telefonicamente un CdA di TIM, società quotata in Borsa, chiedendo di interrompere le decisioni in corso e il tutto nel silenzio assoluto della Consob.

Due ministri (Roberto Gualtieri del MEF e Stefano Patuanelli del MiSE) che a novembre scorso scrivono a Francesco Starace, Ceo di ENEL, invitandolo a cedere la quota di ENEL (50%) in Open Fiber, giusto il giorno prima della presentazione ai mercati internazionali del Piano decennale di Investimenti del gruppo ENEL, creando una innegabile condizione di imbarazzo.

Il pressing

Il ministro Roberto Gualtieri, da parte sua aveva fatto di meglio, convocando più volte Francesco Starace di ENEL, come riportato da organi di stampa, per pressarlo a vendere la quota posseduta da ENEL in Open Fiber. Richiesta del tutto irricevibile, perché se è vero che il MEF è il principale azionista del gruppo ENEL è anche vero che il CEO dell’azienda elettrica risponde agli interessi di tutti gli azionisti e non del principale tra essi.

Un giorno forse capiremo come è stato possibile che sia venuto in mente ad un ministro della Repubblica di provare a smontare una società pubblica, di cui il MEF detiene di fatto il controllo, una società che usa tecnologia avanzata, che è invidiata in tutta Europa, che opera in un settore determinante del digitale che è  connotato da innegabili profili di sicurezza e sovranità digitale, a favore di una società privata, con il principale azionista francese e un totale di azionisti esteri pari al 75% dell’intera proprietà.

Ora tutto questo moto di non-sense si deve fermare. Anche se si intravedono già i vecchi vizi italici del salto sul carro del potente.

E così poche ore dopo l’annuncio del presidente Sergio Mattarella, quei manager schierati dietro al precedente governo stanno già urlando che sono stati da sempre estimatori del presidente incaricato Mario Draghi e che il dossier sulla Rete unica andrà avanti.

Non ne saremmo così sicuri e per questo continueremo a seguire e registrare ogni passo.

Cloud, che succede?

C’è poi il settore più ampio del digitale.

Non intendo riferirmi ai mega dossier della PA digitale che verrà. Mi fermerei su dossier verticali.

In primis il Cloud e il modo in cui vengono trattati i dati pubblici dei cittadini e dei nostri uffici della PA centrale e locale.

Le politiche nazionali sul Cloud sono state negli ultimi tre anni, grazie ad AGID, a sostegno aperto delle multinazionali del settore, senza alcun rispetto per le prerogative di difesa pubblica dei dati dei cittadini.

Ciò che è successo in Italia nel Cloud non è successo in alcun paese europeo. E si dovrebbe impedire a società estere che ospitano dati di cittadini italiani e che sono sottoposte al Cloud Act americano di spacciarsi come società italiane (come recitano alcune pubblicità martellanti di questi giorni). Materia di cui dovrebbe forse occuparsi l’Antitrust…

Su tutto ciò ha naturalmente pesato la palese inadeguatezza della ministra dell’Innovazione Paola Pisano, il cui operato non lascia tracce di rilievo, mentre fissa manchevolezze che forse richiederanno tempo per essere rimosse.

Recovery Fund

Infine c’è il capitolo Recovery Fund, in mano alll’allora ministro Enzo Amendola (ispirato per ragioni funzionali dall’ex ministro al MEF Roberto Gualtieri), che ha portato a spasso l’attenzione e le preoccupazioni dell’opinione pubblica sui progetti da presentare a Bruxelles. Dopo mesi è venuto fuori che ciò che è stato scritto ha praticamente valore zero: poche idee, scritte male, con logiche spartitorie tra territori e forze politiche. Tutto da rifare. Fortunatamente non avremo quel ministro e speriamo di finire in mani più accorte: ora abbiamo pochissimo tempo per rimettere in mare la barca.

Non ci resta che incrociare le dita e fare il tifo per Supermario.