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ll Digital Package cura i sintomi e non le cause: prima del fair share occorre rivedere il PNRR 

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Come tanti di voi, ho dedicato tempo a studiare la proposta di un nuovo pacchetto regolamentare per la trasformazione della connettività in Europa. Ora che è abbastanza chiaro che stiamo perdendo la sfida tecnologica, si pensa a nuove regole che curano i sintomi ma non le cause. Quindi se prima servivano autorizzazioni per fare gli scavi della fibra ottica, adesso basta il silenzio delle amministrazioni. Se gli operatori telefonici non riescono più ad installare tutte le antenne necessarie per la telefonia mobile 5G, si pensa ad aumentare i limiti elettromagnetici, per installarne meno.  

La frustrazione di non avere le gambe veloci come il tapis roulant impazzito su cui corriamo, ci fa commettere diversi altri errori. Anzitutto pensiamo che drogare l’economia di Aiuti di Stato possa rendere sostenibile lo sforzo di anticipare futuri scenari industriali per cui non siamo pronti. Come il doping nello sport non crea un atleta sano e falsa la competizione, così l’intervento dello Stato nell’economia crea problemi sul mercato. Un atleta che fa uso di anabolizzanti non potrà mai correre i 100 metri come Usain Bolt. Allo stesso modo, i fondi del PNRR da soli non dispiegheranno gli effetti sperati perché manca la capacità produttiva per mettere a terra tutti gli obiettivi che ci siamo illusi di poter realizzare. 

Di questo passo le imprese storiche sono finite in profondo affanno ed hanno iniziato a chiedere un sussidio, detto “fair share” o “contributo equo” – per il finanziamento delle nuove reti, perfino ai fornitori di servizi online che molte colpe hanno, meno quella di non partecipare all’infrastrutturazione – almeno nella parte che a loro compete. Il fair share infatti, è una proposta che non si limita semplicemente a cambiare le regole del gioco, le sovverte.  

Leggiamo quindi sui giornali che le aziende coi conti in rosso portano i libri al Governo invece che in Tribunale. E non è poi così sbagliato. Ma chi l’ha detto che abbiamo bisogno di portare 1gigabit per tutti gli italiani entro il 2026? 

Tutti questi sono chiari segnali di un fallimento di progettazione del PNRR ma non solo. Per restare nella metafora, sono arrivati i crampi ai muscoli. Il Codice delle Comunicazioni ha solo pochi mesi ed è già vecchio. Ha preteso di regolare iniziative che non sono nate dal mercato, ma dal tentativo furbesco di liberarsi dalle regole per andare più veloci.  

Le linee guida sugli aiuti di Stato per le reti ad alta capacità sono arrivate dopo l’erogazione degli aiuti stessi. Sorprendente, non è vero? Vai in banca, prendi i soldi e poi presenti un progetto diverso da quello che ti ha consentito di accedere al mutuo. Le regole arrivano anni dopo, in ritardo, e dicono che non puoi vendere casa prima di aver estinto il mutuo e se lo fai, resti comunque responsabile. Che valore hanno le regole successive su un fatto accaduto prima della loro entrata in vigore? 

Dobbiamo chiederci se “il futuro che volevamo è il presente che viviamo”. Io per esempio non volevo affatto essere controllato dal mio cellulare o qualcuno che venisse a spiare nella mia vita privata per farmi desiderare di comprare un oggetto, per farmi votare un politico e non un altro, per dirmi chi sono. Tuttora non voglio che mia madre anziana sia assistita da un robot. Non voglio che l’auto guidi da sola al posto mio. Non voglio vedere i satelliti di Elon Musk girare nel cielo in pieno giorno. Non voglio essere valutato da un algoritmo.  

E tutto questo, non perché sia impazzito o riottoso al cambiamento: questo “futuro” non ce lo siamo nemmeno immaginato che è già diventato presente. E soprattutto non è il futuro che volevamo veramente. 

Ma chi l’ha detto che abbiamo bisogno di reti ad altissima capacità, ubique e pervasive, fisse e mobili, su tutto il territorio europeo? Non sono affatto convinto che sia esattamente questo l’insegnamento che ci ha dato la pandemia e non sono il solo a credere che non saremo in grado di portare la fibra ottica fino dentro casa di ogni cittadino europeo entro il 2030. Addirittura in Italia, dove siamo ancora più ambiziosi, lo vogliamo fare con 4 anni di anticipo rispetto a quegli obiettivi che oggi l’Europa stessa, sa già di non poter raggiungere. 

Per questi motivi, solo una crescita organica e una giusta regolazione può permettere ai grandi Paesi – tra cui l’Italia – di implementare le tecnologie massimizzando il benessere dei cittadini e delle imprese.   

L’avanzamento tecnologico accelerato dall’illusione di colmare l’arretratezza con una spinta finanziaria, finisce per creare una diseconomia e porta con sé evidenti forme di sfruttamento. Si traduce, cioè, nel peggioramento delle condizioni di vita delle persone.  Per capirlo, basta guardare a cosa sta accadendo dove “questo futuro è già passato”. 

L’America si è accorta che non basta iniettare 50 miliardi di dollari nel Chips Act per superare il ritardo nella produzione dei semiconduttori. Questo perché le competenze necessarie per produrli in America non ci sono. Andare a prelevare dei lavoratori esperti a Taiwan e portarli a Phoenix è stata una stupida follia perché in occidente – vivaddio – manca la possibilità di sfruttare il lavoro minorile. Produrre Chips in America costa 5 volte di più e mancano all’appello 10mila operai specializzati. 

Ecco perché stiamo vivendo la più violenta accelerazione della storia dal secondo dopoguerra ad oggi ed anche stavolta la spinta viene dalla tecnologia. Un dato di fatto mi sembra inequivocabile: noi non siamo più figli del nostro tempo. Non siamo figli della gig economy, della space economy, delle auto a guida autonoma, dell’intelligenza artificiale generativa. 

Mi domando allora a cosa serva portare una rete privata 5G dentro una miniera se poi non si rispettano le più elementari norme di sicurezza: è così che centinaia di minatori cinesi sono morti dentro una cava di carbone, anche se era bella e robotizzata.  

Fermiamoci a pensare.

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