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L’Italia ha recepito la Direttiva Copyright. Il punto sull’art. 14 e la libera riproduzione dell’arte visiva

L’Italia ha finalmente (il termine ultimo era previsto al 6 giugno 2021) recepito la direttiva UE 2019/790, nota come Direttiva Copyright: il d.lgs. 8 novembre 2021, n. 177, che ha novellato molteplici (e rilevanti) disposizioni della legge sul diritto d’autore (legge 22 aprile  1941,  n.  633), è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 283 del 27-11-2021 (la novella entrerà in vigore il 12 dicembre 2021). Se il recepimento dell’art 15 della Direttiva (che ha introdotto il diritto connesso degli editori di giornali per l’utilizzo online delle loro pubblicazioni di carattere giornalistico da parte di prestatori di servizi della società dell’informazione) e dell’art. 17  (che ha introdotto la responsabilità per violazioni del diritto d’autore dei prestatori di servizi di condivisione per materiali protetti e caricati dai propri utenti) erano “i piatti forti”, la trasposizione da parte del legislatore nazionale dell’art. 14 era attesa solamente da chi s’interessa, a vario titolo, di digitalizzazione del patrimonio culturale. Se è lecito il paragone, gli artt. 15 e 17 potrebbero essere assimilati a delle star hollywoodiane, mentre l’art. 14 a un valente, quanto sobrio, attore di teatro.

Quindi, il nuovo articolo 32-quater della legge italiana sul diritto d’autore, recependo l’art. 14 della Direttiva Copyright (2019/790), ha introdotto il principio della non tutelabilità delle riproduzioni delle opere dell’arte visiva il cui diritto d’autore sia scaduto.

L’approccio proprietario

Ad una prima lettura, si può dire che il legislatore italiano ha preferito rimanere nel confortevole alveo “dell’approccio proprietario” del patrimonio culturale digitalizzato  in totale controtendenza rispetto al principio degli open data sponsorizzato dall’UE; sul principio degli open data, si veda, per esempio, la Raccomandazione della Commissione europea del 27 ottobre 2011: “promoting the widest possible access to digitised public domain material as well as the widest possible reuse of the material for non-commercial and commercial purposes”) o la Direttiva UE 2019/1024 relativa all’apertura dei dati e al riutilizzo dell’informazione del settore pubblico che considera possibile, ma sostanzialmente quale eccezione rispetto alla regola generale del riutilizzo libero, la concessione a pagamento dei dati pubblici digitalizzati (il considerando 36 di tale Direttiva recita: “i documenti dovrebbero pertanto essere resi disponibili per il riutilizzo gratuitamente e, qualora sia necessario un corrispettivo in denaro, è opportuno che questo sia limitato ai costi marginali).

Il contesto prima della Direttiva Copyright

In estrema sintesi, prima dell’introduzione della Direttiva Copyright, la copia digitale di un’opera dell’arte visiva (che non avesse in sé contenuto creativo, quindi si doveva trattare di una mera riproduzione fotografica o digitale di un’opera fisica dell’arte visiva), il cui diritto d’autore originale era scaduto (s’immagini un quadro di Tiziano o del Guercino, conservato in qualche museo), poteva essere tutelata in base al diritto connesso previsto dagli artt. 85 e ss. della legge sul diritto d’autore e, nel caso in cui si trattasse di un bene culturale, anche in base agli artt. 107 ss. del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42) secondo cui la riproducibilità è soggetta ad autorizzazione e deve essere pagato un canone “determinato dall’autorità che ha in consegna i beni” (art. 108 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio).

L’art. 14 della Direttiva Copyright

Nel contesto su delineato, è calato dall’UE l’art. 14 della Direttiva Copyright che testualmente recita: “gli Stati membri provvedono a che, alla scadenza della durata di protezione di un’opera delle arte visive, il materiale derivante da un atto di riproduzione di tale opera non sia soggetto al diritto d’autore o a diritti connessi, a meno che il materiale risultante da tale atto di riproduzione sia originale nel senso che costituisce una creazione intellettuale propria dell’autore”.

Il Parlamento italiano, in fase d’implementazione del summenzionato articolo 14 della Direttiva Copyright, sarebbe potuto intervenire anche sui citati articoli 107 e 108 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio per rendere pienamente applicabile il principio degli open data in conformità alle raccomandazioni della Commissione Europea, ma ha, invece (e nel senso opposto), scelto di mantenere gli offendicula (sia consentito dirlo) del diritto dei beni culturali a tutela dal patrimonio culturale (rectius  delle copie digitali di tale patrimonio). Il nuovo articolo 32-quater della legge del diritto d’autore, novellato in base al d.lgs. 8 novembre 2021, n. 177, infatti, recita: “alla scadenza della durata di protezione di un’opera delle arti visive, anche come individuate all’articolo 2, il materiale derivante da un atto di riproduzione di tale opera non è soggetto al diritto d’autore o a diritti connessi, salvo che costituisca un’opera originale. Restano ferme le disposizioni in materia di riproduzione dei beni culturali di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”.

La situazione in Italia, dopo il recepimento della Direttiva Copyright, fa pensare al proprietario di un ristorante in franchising che, dovendo seguire le indicazioni della catena di franchising di cui fa parte di far mangiare gratuitamente, in alcune giornate, la clientela, lo faccia, chiedendo, però, al tempo stesso, un canone obbligatorio per l’uso dei tavoli e delle posate: un pasticcio controproducente rispetto alla strategia di marketing adottata dalla catena di franchising, di cui si può ovviamente discutere l’efficacia (o l’opportunità), ma che non ha senso applicare nella forma e, poi, svilire nella sostanza.

Qualche alternativa?

L’uso ormai sempre più diffuso di nuovi strumenti, come gli NFT (su tali strumenti si veda il seguente articolo pubblicato da chi scrive sulla presente testata), che permettono l’inclusione di file e informazioni riservate solamente a chi acquista il token non fungible (cosiddetti file unlockable) o la creazione di gallerie digitali potrebbe (e poteva) forse controbilanciare in modo più adeguato (e sofisticato) il pericolo che il principio degli open data generi un uso incontrollato delle immagini digitali del patrimonio culturale italiano.

A monte di tutto, naturalmente, rimane la domanda se la copia digitale di un bene culturale fisico abbia la capacità di volgarizzare e diluire il valore artistico e culturale del bene fisico stesso o operi, invece, su un piano diverso: chi scrive ritiene che non vi sia “sostituibilità”, e quindi non ci sia pericolo di diluizione, tra il mercato delle immagini digitali e l’oggetto fisico-opera d’arte visiva di cui tali immagini costituiscono la rappresentazione digitale; sul punto sia (anche) consentito rinviare all’articolo scritto congiuntamente a Paolo Zagaglia, sulla presente testata.

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