Economia

L’impatto del coronavirus sull’economia globale costerà 1 trilione di dollari

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Sul lungo periodo l'epidemia potrebbe frenare il processo di globalizzazione o, addirittura, avviare una di fase di de-globalizzazione.

Alle tragiche conseguenze umane dell’epidemia di coronavirus si aggiungono pesanti effetti sull’economia globale. Nel 2020, secondo il reportThe coronavirus shock: a story of another global crisis foretold – And what policymakers should be doing about it”, presentato dall’UNCTAD, l’incertezza e le aspettative negative causate dalla pandemia potrebbero avere gravissime ripercussioni economiche.

Nel report, l’UNCTAD prevede un forte rallentamento dell’economia mondiale: una perdita di 1 trilione di dollari e una riduzione della crescita annuale globale al di sotto del 2,5%. 

Cause

Le cause della crisi globale sono da rintracciare nel ruolo assunto dalla Cina sul piano economico. Il rallentamento della Cina e lo stop produttivo imposto dall’epidemia produrrà conseguenze a catena sul resto del mondo. 

In primo luogo, in molti settori la Cina è uno dei più importanti player nella fornitura di beni intermedi necessari ad altri paesi per la produzione e l’esportazione di prodotti finiti.

In secondo luogo, dato il frazionamento del processo produttivo su scala globale, la frenata cinese provoca un blocco della produzione e un conseguente rialzo dei prezzi nei settori industriali che hanno scelto quel tipo di organizzazione. Inoltre, stante le dimensioni del mercato cinese, gli effetti negativi si ripercuotono non solo sull’offerta, ma anche sulla domanda globale. La riduzione dei consumi e il blocco delle importazioni cinesi, infatti, incidono sulle esportazioni del resto del mondo.

PVS

La crisi cinese crea una situazione particolarmente rischiosa per quei Paesi che basano la propria economia sull’esportazione di materie prime, come Brasile, Russia e Argentina, e che da tempo convivono con un forte indebitamento in valuta estera, noto come original sin.

Il calo dei prezzi delle materie prime, ad esempio il petrolio, e la riduzione delle esportazioni espongono tali paesi a forti squilibri di bilancia dei pagamenti e al rischio di insolvenza. I dati UNCTAD mostrano che su 117 Paesi in via di sviluppo «Circa un quinto di queste economie sono molto vulnerabili agli impatti diretti dello shock COVID-19 a causa di una combinazione di deterioramento della sostenibilità del debito con una forte esposizione delle loro economie al commercio e a delle relazioni economiche più ampie con la Cina». 

Ci si riferisce in particolare a Mongolia, Angola, Gabon, Filippine, Mozambico, Vietnam, Cambogia e Zambia. Secondo l’Agenzia Onu, «Queste economie in via di sviluppo sono strettamente legate all’economia cinese dalla loro partecipazione alle catene di valore mondiali gestite dalla Cina e dipendono anche dalle esportazioni di materie prime verso la Cina».

Europa e Italia

Il report prevede rallentamenti nella crescita tra lo 0,9 e lo 0,7% in tutti i Paesi inseriti nelle global value chains, in particolare, Canada, Messico e paesi dell’America Centrale, ma anche i Paesi dell’area asiatica e i Paesi periferici dell’Unione europea.

Quali soluzioni?

Si tratta dunque di uno scenario preoccupante che, come segnalato dall’UNCTAD, richiederà un ritorno verso politiche keynesiane, monetarie o di bilancio, rivolte al sostegno della domanda aggregata. In tal senso, un segnale importante è rappresentato dal piano d’emergenza di 750 miliardi annunciato dalla BCE nei giorni scorsi.

L’impostazione descritta pare dunque imprescindibile per tutti i Paesi colpiti dall’epidemia, soprattutto per quelli, come l’Italia, che avrebbero bisogno, anche al netto della crisi attuale, di una politica industriale chiara e di forti investimenti pubblici nel settore delle infrastrutture e del digitale per innescare un processo di crescita virtuoso.

Criticità

L’epidemia di coronavirus sta mettendo in evidenza alcune criticità dall’assetto attuale. In primo luogo, la mancanza di forme di coordinamento a livello globale. Questo aspetto pone l’urgenza di creare una governance della globalizzazione per mettere a punto regole universali, almeno per quanto riguarda gli standard igienici e sanitari.

In secondo luogo, la forte dipendenza del resto del mondo dall’economia cinese. Ci si riferisce non solo ai beni intermedi o alle materie prime, ma soprattutto all’approvvigionamento di alcuni beni labour intensive, come ad esempio le mascherine anti contagio. Questo dato potrebbe stimolare in molti paesi una riconsiderazione e un ampliamento dei settori e delle produzioni da considerarsi strategiche.

Verso una de-globalizzazione?

L’epidemia potrebbe avere nel lungo periodo l’effetto di attenuare il rapporto di dipendenza creatosi con la Cina, accelerando alcune tendenze emerse negli ultimi anni: da un lato, il reshoring, ossia le spinte, presenti sia in Europa che negli States, verso il rientro in patria delle attività manifatturiere e la riorganizzazione delle supply chain; dall’altro lato, la riduzione della dipendenza tecnologica della Cina dai paesi industrializzati a causa dell’elevato livello raggiunto nel settore tech.

Questi fattori lasciano intravedere la possibilità di una frenata nel processo di globalizzazione o, addirittura, l’inizio di fase di de-globalizzazione.