l'analisi

L’Europa e la resilienza della democrazia, mentre gli Usa dichiarano guerra ai big tech

di Fernando Bruno, giornalista e scrittore |

Mentre negli USA il Congresso si pronuncia contro lo strapotere delle piattaforme digitali globali, in Europa una fitta trama di documenti, iniziative e provvedimenti disegna la democrazia del futuro in un quadro di crescenti allarmi e preoccupazioni.

Questa settimana inizia in Parlamento a Strasburgo l’esame del pacchetto di misure rivolte ad aggiornare la direttiva del 2000 sul commercio elettronico ed a stabilire per via legislativa nuove misure di contrasto del crescente potere di gatekeeping delle piattaforme digitali globali, sia in ambito concorrenza e mercato (Digital Market Act) sia con riferimento all’offerta di contenuti e servizi agli utenti finali e connesso nuovo regime di responsabilità (Digital Services Act). Per completezza va ricordato che il 25 novembre scorso la Commissione ha presentato in Parlamento anche la propria proposta di regolamento in materia di data governance (Data Governance Act).

La cornice, per così dire, filosofica, in cui tutte queste iniziative si inquadrano, è rinvenibile nella Comunicazione della Commissione del 3 dicembre scorso sul Piano d’azione per la democrazia europea in cui si parla espressamente della necessità di “garantire la resilienza della nostra democrazia” rispetto alle “sfide lanciate dalle inedite crisi economica, climatica e sanitaria che ci troviamo ad affrontare”.

Per una singolare coincidenza, tutto ciò accade praticamente in contemporanea con l’avvio, sull’altra sponda dell’Atlantico, di una delicata partita giocata su un terreno di gioco contiguo. Come si è letto un po’ dappertutto nei giorni scorsi, all’esito di una istruttoria avviata nel luglio del 2019 la Federal Trade Commission statunitense e una variegata aggregazione di ben 48 Stati, hanno deciso di avviare due distinte cause antitrust nei riguardi di Facebook, accusata di condotte anticoncorrenziali. Nel mirino sono finite, in particolare, le acquisizioni a suo tempo portate a termine di Instagram (2012) e di WhatsApp (2014) ed il potere di mercato (asseritamente anticoncorrenziale) che ne è conseguito. L’iniziativa, va peraltro collocata nel quadro di una più ampia offensiva istituzionale condotta negli USA nei riguardi delle piattaforme digitali di cui un recente Rapporto del Congresso (ottobre 2020), maturato all’esito di un anno e mezzo di audizioni e studi, costituisce uno degli snodi essenziali. Per intenderci, si tratta di un Rapporto che paragona lo strapotere dei Big4 (Google, Amazon, Facebook e Apple) a quello esercitato a cavallo tra ‘800 e ‘900 dai padroni delle ferrovie e del petrolio. I benefici sociali delle coraggiose start-up delle origini – si evince dalle conclusioni del Rapporto – sarebbero ormai solo un pallido ricordo di fronte ai prezzi sociali che l’attuale strapotere delle piattaforme impone ai mercati e alla concorrenza, all’informazione, e finanche alla formazione delle libere opinioni. 

Tornando all’Europa, l’approdo in Parlamento, a Strasburgo, delle tre proposte legislative menzionate – nella cornice della Comunicazione della Commissione del 3 dicembre –  costituisce anche qui l’esito di un percorso avviato da anni e transitato attraverso innumerevoli tappe e documenti, di cui merita richiamare almeno i tre più recenti, ossia il Regolamento UE 20 giugno 2019, adottato con l’obiettivo di costruire un ecosistema digitale in grado di assicurare scambi commerciali più equi e più trasparenti rispetto a quanto finora garantito dalla direttiva commercio elettronico del 2000;  la Comunicazione della Commissione del 12 febbraio 2020, adottata, come si legge sul sito della Commissione, allo scopo di assicurare “una tecnologia al servizio delle persone, un’economia equa e competitiva e una società aperta, democratica e sostenibile” e il Libro Bianco sull’intelligenza artificiale del 19 febbraio 2020.

Da questa coincidenza di iniziative istituzionali emerge innanzitutto una evidenza: nell’arco del ventennio che separa noi europei dalla direttiva commercio elettronico, passata l’euforia per i successi dei grandi protagonisti dell’economia digitale globale e per i benefici che parevano derivarne per tutti, a partire grosso modo da dieci anni a questa parte, prima con gradualità e lentezza, ma da tre o quattro anni con crescente e diffusa consapevolezza e preoccupazione,  abbiamo definitivamente consumato l’idea che l’inarrestabile ascesa delle piattaforme digitali fosse un moltiplicatore universale di ricchezza,  opportunità e  libertà.

La nuova stagione di riflessione che sembra aprirsi non dovrebbe però restare confinata nei pur pregevoli e necessari recinti delle costruzioni giuridico-politiche europee, né tantomeno nel dibattito tra accademie e specialisti. C’è un compito della politica – che nel secolo passato i grandi partiti organizzati di massa avrebbero certamente saputo raccogliere – di portare nel dibattito quotidiano, nelle proposte programmatiche, nella prospettazione del futuro (ossia in quella che dovrebbe essere la funzione più nobile e più naturale di ogni costruzione politica) il dibattito sul Piano d’azione per la democrazia europea presentato a Bruxelles nei giorni scorsi.

Se questo compito viene meno. Se fallisce l’obiettivo di far diventare pane quotidiano di tutti i cittadini il lontano linguaggio dei consessi europei. Se la politica non si carica sulle spalle il compito di tradurre, ad uso e consumo di tutti, ciò che accade a Bruxelles. Se non c’è una generazione politica nazionale in grado di spiegare che le iniziative che maturano in Europa- e dunque l’attenzione riservata alla tutela dei consumatori, alla difesa della privacy, alla competitività dei mercati, alla trasparenza dei processi decisionali algoritmici, all’autorevolezza e alla credibilità dell’informazione, in definitiva ad una piena e consapevole cittadinanza digitale – sono, oggi, il sale della nostra democrazia. Se tutto questo non accade, la politica viene meno alla sua funzione storica e la democrazia come l’abbiamo faticosamente costruita qui in Europa, ad un prezzo altissimo, a partire dal Petitions Right (1628), dalla rivoluzione puritana (1645) e dalla decapitazione di Carlo I (1649), è davvero a rischio.

Se, come leggiamo e sappiamo, il 70% dei 71milioni di elettori di Trump è davvero convinto che le elezioni americane sono state truccate; se proliferano sul web narrazioni sempre più fantasiose e orwelliane su “Great reset” e “transumanesimo”; se la scienza ha crescente difficoltà a rassicurare milioni e milioni di persone sull’uso dei vaccini; se si allargano nel pianeta aree di non democrazia che interessano i confini e la stessa periferia dell’UE; se – per altro verso –  crescono e si aggravano gli squilibri economici e sociali (anche fuori dalla porta delle nostre confortevoli abitazioni, leggere l’ultimo Rapporto Caritas o anche semplicemente le statistiche ISTAT sulla povertà o i dati del recentissimo Rapporto Censis, per convincersene), se tutto questo e mille altri fenomeni si moltiplicano in assenza di una controffensiva della democrazia che parta dalle istituzioni, ma poi sappia filtrare tra la gente e conseguire adesione e consenso, allora bisogna davvero temere per il futuro della nostra democrazia.

Non ho memoria di un documento Ue che si sofferma con toni preoccupati – come fa la Comunicazione della Commissione del 3 dicembre – sulla necessità di “rafforzare la resilienza democratica”, e lo fa con l’obiettivo di definire un “quadro rafforzato” delle politiche europee in grado di “promuovere elezioni libere e regolari; sostenere mezzi d’informazione liberi e indipendenti; contrastare la disinformazione”. Mi pare più che un segnale di preoccupazione.

Riflettendo retrospettivamente sulle cause e gli effetti della grande recessione economica globale conseguita alla crisi del 2008, Jeffrey David Sachs (Il prezzo della civiltà, 2012) e Joseph Stiglitz (Il prezzo della disuguaglianza, 2013) arrivavano a conclusioni comuni: per progredire, la democrazia deve redistribuire tutto, ricchezze, conoscenze, benessere. Sembrava che da quella crisi fosse germogliata una diffusa e più matura consapevolezza in tal senso. Sembrava conseguito una volta per tutte il principio che toccasse ai mercati rendersi compatibili con la democrazia, e non viceversa. Non è andata così.

Mentre negli USA il Congresso riporta all’attenzione dell’opinione pubblica il problema dello strapotere delle grandi piattaforme digitali e l’FTC punta dritta alla divisione proprietaria di Facebook, in Europa la fitta trama dei documenti e delle decisioni di questi ultimi due anni ci dice due cose. Che c’è grande consapevolezza (e quindi, potenzialmente, grande capacità di azione e di iniziativa) circa il passaggio cruciale che la nostra democrazia sta vivendo. Ma ci dice anche (questo è ciò si legge nella Comunicazione della Commissione del 3 dicembre) che c’è molta preoccupazione. Forse per la prima volta dalla fine della guerra fredda si percepisce in questa nostra parte di mondo il carattere transeunte delle nostre conquiste democratiche; la necessità di consolidarle e difenderle; il dubbio sinistro che possa prevalere un pensiero di segno opposto, frutto dell’ineffabile saldatura tra un nuovo capitalismo globale ed elitario insofferente alle regole e plebi senza bussola e senza domani; un pensiero che si alimenta del dubbio che forse non è vero che la democrazia politica sia il migliore dei mondi possibili.

In una Germania illividita dall’incrudirsi della curva pandemica, il discorso accorato di Angela Merkel al Parlamento si è distinto per un passaggio cui i media hanno giustamente dato ampio risalto: cosa si dirà di noi un giorno guardando indietro? È questa la domanda che ogni leader, ogni schieramento politico, ogni classe dirigente, ogni elite, dovrebbe farsi ogni giorno. Il futuro dell’Europa e delle nostre democrazie dipende molto dalle azioni e dalle scelte che si compiranno a partire da questa domanda.

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