Economia

Lettera Anesti. Se la crisi economica fa smarrire il buonsenso

di Eutimio Tiliacos |

Estate 2014 costellata da molti colpi di sole, che hanno colpito esimi cattedratici ed esperti di economia secondo cui per ridurre il debito pubblico italiano bisognerebbe far lievitare l’inflazione.

Prosegue la pubblicazione su Key4Biz della ‘Lettera ANESTI’ di Eutimio Tiliacos, analista internazionale con cui cerchiamo di comprendere meglio le dinamiche che stanno riformulando i ranking internazionali tra economia, finanza, manifatturiero, conoscenze e istituzioni internazionali.
Per consultare gli articoli precedenti, clicca qui.

Il Cardinale Mazzarino, divenuto nel 1641 primo ministro del re di Francia Luigi XIII e successivamente anche di Luigi XIV – il Re Sole – soleva affermare che la vera natura delle persone si conosce “nel gioco, a tavola e nel dolore” ovvero “quando gli animi sono deboli” (Multum noscuntur in ludo, mensa, afflictione ubi molles sunt animi). Se fosse vissuto nel XXI secolo Mazzarino avrebbe probabilmente aggiunto a questa lista anche le crisi economiche che hanno il potere di far smarrire il buonsenso e fiaccano l’animo ad alcuni illustri pensatori economici alla pari del gioco, della tavola e del dolore.  Strana estate perciò quella 2014 con molta pioggia nel Sud Europa e tuttavia con molti colpi di sole che hanno interessato esimi cattedratici portandoli a fare affermazioni a dir poco sconcertanti come quella che per ridurre il debito pubblico italiano sarebbe necessario lasciar lievitare l’inflazione così da comprimere in termini reali la massa del debito (sic!!!!). Colpiti oltre che dal sole anche da deliri di onnipotenza questi signori pensano sia possibile tener fermi i tassi di interesse mentre l’inflazione cresce: affermazione che, oltre a dare degli allocchi ai sottoscrittori istituzionali dei titoli del debito pubblico (è come se un fondo pensione o un gruppo di banche si potesse trattare alla stregua di un turista derubabile del portafoglio mentre è intento a sorbire un cono gelato in una qualunque località di vacanza) non trova riscontro nella storia economica, se non negli anni del secondo dopoguerra, ma a fronte, in questo ultimo caso, di una economia fortemente espansiva perché votata prevalentemente alla ricostruzione: situazione non certamente replicabile nel contesto attuale contrassegnato da un esubero di capacità produttiva a livello planetario in tutti i settori.

La seconda banalità estiva riguarda la produttività. Si sente dire che per rilanciare l’economia è necessario aumentare la produttività. Affermazione lodevole se non fosse che pecca di genericità e nella situazione attuale, di tautologia, in quanto da un punto di vista statistico la produttività è il rapporto fra volume della produzione e ore lavorate (Labour productivity è infatti definita dall’OCSE “Output per unit of labour input”).

Ora si dà il caso che da alcuni anni la produttività ristagni o in molti paesi sia in flessione non perché si utilizzino più ore del necessario per produrre lo stesso bene ma perché la domanda (e di conseguenza la produzione) è in flessione più rapida della riduzione del numero degli occupati e del vantaggio apportabile al ciclo produttivo da macchine sempre più efficienti (vedasi al riguardo quanto avviene nel comparto automobilistico). Si segnala inoltre il fatto che il recupero di produttività ha un senso macroeconomico quando la manodopera, eccedente il normale fabbisogno imposto dallo standard tecnologico corrente, trova assorbimento in altri settori anche grazie ad un processo di specializzazione professionale più elevato, ma non quando il fenomeno interessa contemporaneamente tutti i settori, perché in tali circostanze la dismissione contemporanea di forza lavoro provoca solo un crollo della domanda ed è quindi causa di ulteriore rallentamento della economia. Negli ultimi anni la produzione ha mostrato segni di asfissia: a) vuoi perché i provvedimenti fiscali adottati in vaste aree economiche del mondo e in Europa in primis  hanno depresso oltremodo la domanda aggregata b) oppure – ed è questa a nostro avviso la ragione principale – perché la particolare tipologia di prodotti offerti ha saturato il mercato; in altre parole i settori che forniscono questi beni e servizi soffrono oggi di sovraccapacità strutturale indipendentemente dall’apporto che la tecnologia corrente può offrirgli, specie se tale apporto è limitato al solo miglioramento del processo produttivo (innovazione di processo). Solo un salto tecnologico completo (innovazione di prodotto e di contesto di mercato) può ripristinare adeguati livelli di domanda: qualcosa di simile a ciò che è avvenuto quando si è passati dalla carrozza a cavalli al treno o dalla macchina da scrivere ad internet.

La flessione della produzione (e di conseguenza della produttività) non sembrerebbe pertanto imputabile a disaffezione dei fattori produttivi (capitale e lavoro) ma sarebbe principalmente determinata dal fatto che la produzione è diventata obsoleta (c’è saturazione di domanda per certe categorie di beni stante l’attuale stile di vita e livello tecnologico corrispondente) e si possono ridurre le ore lavorate finché si vuole ma se non si rinnova radicalmente la tipologia di beni e servizi che pongono in relazione produttore e consumatore non c’è riduzione delle ore o apporto di capitale che tenga. Quel che conta è pertanto lo stile “tendenziale” di vita: ci si può adeguare ad uno stile rincorrendolo ma ciò che occorre ai giorni nostri per rilanciare l’occupazione è “determinarlo”: ricordate il periodo in cui in ogni casa c’era una macchina da cucire a pedale e poi fu inventata la macchina da cucire elettrica per scoprire comunque alcuni anni più tardi che nessuno cuciva più i vestiti in casa propria ma i capi di abbigliamento venivano oramai acquistati dalla maggioranza dei consumatori già confezionati  dopo essere stati prodotti industrialmente?

La terza leggenda estiva è cantata da menestrelli che invocano una ripresa della economia legata all’uscita dell’Italia dall’Euro e un ritorno a svalutazioni competitive. Manca completamente nel ragionamento di questi presunti economisti ogni riferimento e calcolo legato al significato di valore aggiunto delle nostre esportazioni (quanto di veramente italiano c’è nel nostro export?). La quota prevalente di tale export, in quanto l’Italia non è un paese produttore di materie prime ma è un semplice trasformatore, è infatti  molto spesso rappresentata da frazioni di valore aggiunto e materie prime non prodotte in Italia ma acquistate dall’estero per consentirci di completare il prodotto finito: immaginiamo un vestito di seta da donna dove il valore che va “perso” (ossia è rappresentato da acquisti fuori dei confini nazionali e pagato in dollari, rupie indiane, renmimbi cinesi e altre valute) sia costituito dalla remunerazione alla manodopera estera e da materie prime e  semilavorati prodotti al di fuori dei nostri confini quali l’acquisto del tessuto grezzo, la sua colorazione, la stampa del disegno e ancora il taglio e cucitura, per finire con l’acquisto – sempre all’estero – della confezione regalo in cui il bene finito verrà proposto all’acquirente, residuando come quota rappresentativa del valore aggiunto italiano solo la remunerazione per il design, la commercializzazione e la pubblicità in fase di distribuzione del prodotto finito.

Come già riferito in un precedente numero di Lettera ANESTI (www.anesti.it > Lettera ANESTI > Giugno 2013) qualora andassimo a depurare il nostro export della quota che “va pagata” all’estero, ciò che residuerebbe dopo tale sottrazione  – il vero valore aggiunto italiano – ci porrebbe, in una classifica OCSE composta di 28 paesi, solo al 22simo posto Rif: WP/13/62 IMF Working Paper “Export Performance in Europe: The Role of Vertical Supply Links”, March 2013.

Potremmo trovarci in definitiva nella situazione  di avere uno svantaggio più che un vantaggio dalla svalutazione in quanto potrebbe risultare che, in termini di maggiori esborsi per l’acquisto di input esteri necessari a completare il prodotto, questi eccedono il più alto ricavato possibile grazie alla svalutazione della nuova moneta sostitutiva dell’Euro. E’ altamente possibile che ciò si verifichi per un fenomeno definibile come “disallineamento delle fluttuazioni dei cambi”. Il danno potrebbe risultare tanto maggiore quanto più dipendiamo da tecnologie, lavoro e organizzazione estera per completare il nostro ciclo produttivo che provengono da paesi che hanno nel commercio mondiale “ragioni di scambio” molto forti, ossia producono beni che per natura e tecnologia solo pochi possono offrire; la valuta di questi paesi di conseguenza ha rapporti di cambio che tendono a riflettere questa situazione di particolare forza nel commercio internazionale rivalutandosi molto di più verso paesi deboli inclini a svalutazioni continue piuttosto che verso paesi dotati di valuta stabile. Inoltre si determinerebbe un aumento dei costi delle materie prime consumate non prodotte in Italia (esempio petrolio) a tutto detrimento dei settori non esportatori quali il comparto delle costruzioni e il comparto servizi operante esclusivamente sul mercato domestico.

La quarta banalità estiva è quella che vorrebbe ricondurre il rilancio della economia italiana alla semplice o sola riduzione della tassazione del lavoro nella sua accezione ampia di cuneo fiscale comprensivo anche dei contributi che datori di lavoro e lavoratori debbono versare agli enti previdenziali per il mantenimento delle politiche sociali. Premesso che tale riduzione è comunque auspicabile e deve rimanere un obiettivo di politica economica da perseguire con costanza, va però anche sottolineato che da sola tale iniziativa non può essere un surrogato alla assenza di adeguate politiche industriali. Se bastasse il confronto del cuneo fiscale per determinare la maggiore competitività rispetto ad altri paesi l’Italia sarebbe avvantaggiata economicamente in Europa rispetto ad un buon numero di concorrenti dell’area Euro, venendo per ammontare prelevato dalla busta paga per somma di motivi fiscali e contributivi solo dopo Belgio, Germania e Francia che hanno un cuneo fiscale più oneroso del nostro come ci racconta un recente studio dellaDeutsche Bank Research pubblicato il 16 Luglio 2014 a firma Frank Zipfel dal titolo “Lowering tax burden on labour”   che così scrive:  “Higher net pay has been the key political message heard in Germany for a long time, though to date hardly any deeds have followed the words. In other European states the tax load on labour still appears much too high. At the recent Eurogroup meeting the finance ministers again fully committed to the EU’s agenda for growth and jobs and reaffirmed their resolve to reduce the tax load on labour, namely the tax wedge in particular. The high tax load on labour, both at macroeconomic and microeconomic level, usually has adverse effects on growth forces, because the taxation of labour distorts the decisions made by economic agents in numerous ways. At the microeconomic level the high burden on labour becomes especially clear when looking at the tax wedge. The tax wedge measures the difference between the gross labour costs of the employer (including employee and employer social security contributions) and the net income of the employee as a percentage of total labour costs. The eurozone countries Belgium, Germany, France, Italy and Austria lead the ranking with tax wedges of 45% to 55% (2013, single).”

Per rilanciare l’economia mondiale e quella italiana in particolare sembra rimanere quale unica strada percorribile quella della politica industriale improntata all’innovazione più che alla conservazione tramite semplice distribuzione di incentivi (vedasi al riguardo Lettera ANESTI Giugno 2014). E’ necessario partire dalla conoscenza accurata del presente per disegnare il futuro e porlo in atto. Il Made in Italy nella moda non è progredito solo perché miglioravano gli standard di consumo di filo nella cucitura degli abiti ma perché anticipava e imponeva stili nuovi nell’abbigliamento. Ma stile di vita innovativo non è solo e meramente un fatto estetico come nella moda; è anche affermazione di normative e standard che delineino come ecosa produrre in futuro nel settore industriale. La definizione di normative e standard è della massima importanza perché serve a delineare come vogliamo che sia tale futuro. E’ compito del settore pubblico e del legislatore partecipare con un ruolo non subalterno alla definizione sul piano internazionale di normative e standard che accelerino l’innovazione, come pure è compito del settore privato partecipare attivamente a questo sviluppo di sistemi innovativi con il fine della conquista di posizioni di assoluta leadership nel contesto internazionale. Come sosteneva ancora il Mazzarino “prima di affrontare un nuovo impegno devi approntare le capacità per affrontarlo e valutare se ti darà guadagno”.