Key4biz

La semplificazione molto virtuale degli open data e il ‘neostatalismo’ dei servizi digitali della PA

Andrea Lisi

Siamo sicuri che occorra partire dagli open data per avviare la digitalizzazione nel nostro Paese? Siamo certi che la trasparenza possa essere assicurata senza una semplificazione reale e senza un ordine garantito agli archivi digitali a livello locale?

 

Premessa.


Semplificare, semplificare, semplificare

Sono diversi anni (più di venti ormai) che la semplificazione[1] e la “sburocratizzazione” del sistema attraverso l’informatizzazione della pubblica amministrazione[2] risultano essere tra gli obiettivi da raggiungere per far ripartire il Sistema Paese.

Nonostante i buoni propositi in Italia la rivoluzione digitale non decolla; la trasparenza, la partecipazione e l’innovazione rimangono slogan e non si concretizzano mai.

Un dilemma tutto all’Italiana quello della rivoluzione digitale, diventata sempre di più un miraggio (o forse un’amara barzelletta) per tutti i cittadini del nostro Paese.

 

  1. La moda degli Open Data
    Gli open data sono oggi al centro dello storytelling filogovernativo dedicato alle splendide frontiere del digitale. Non si parla d’altro, come se solo i dati aperti possano essere in grado risollevare tutte le sorti del digitale all’italiana!

Non è sbagliato credere che gli open data (senza dimenticare la trasparenza digitale del “FOIA”[3]) potrebbero migliorare in modo trasversale la qualità di vita dei cittadini, ma sono solo un piccolo tassello della più ampia necessità di un netto cambio culturale.
I dati aperti, se ben gestiti, ci permetterebbero di monitorare la spesa pubblica, oppure di digitalizzare le risorse culturali, elemento che nel nostro Paese costituisce un potenziale economico di primissimo rilievo. Sono cambiamenti a portata di mano che di fatto però non riusciamo a sviluppare con reale efficacia.
Se non inseriti in un discorso più ampio, restano slogan da rilanciare in qualche campagna social, utili solo a far leva sui pruriti voyeuristici di qualche internauta senza la possibilità di incidere sulla consapevolezza, da parte dei cittadini, dei propri diritti digitali
.
In ogni caso, mappare con certezza e rendere libera ogni utilità pubblica o privata che ci riguarda può essere utile. Su questo non c’è dubbio.

È un processo indispensabile, infatti, quello di cambiare in modo radicalmente trasparente il rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione laddove la tecnologia ci ha messo a disposizione gli strumenti per poter raggiungere questo obiettivo.

Il cambio di passo verso una rivoluzione digitale anche in ottica “open” ci viene chiesto direttamente dall’Europa con la Direttiva 2013/37/UE. Probabilmente è merito dell’impulso di tali provvedimenti europei se si è giunti, almeno in linea di principio, a promuovere la condivisione del patrimonio informativo pubblico nel nostro ordinamento.
La valorizzazione della condivisione, intesa come perseguimento non solo delle finalità di trasparenza e pubblicità dell’agire amministrativo, ma anche come maggiore efficienza nella gestione di dati, informazioni e documenti delle amministrazioni, favorendone il riutilizzo anche per finalità commerciali, è rinvenibile oggi nel Codice dell’amministrazione digitale (D. Lgs. 82/2005) e anche nelle norme sulla trasparenza amministrativa (D.Lgs. n. 33/2013) e sul riutilizzo dell’informazione nel settore pubblico (D.Lgs. n. 36/2006). Normative tutte recentemente (e per l’ennesima volta) modificate.

Fatte le leggi, e riempita la bocca di principi generali giustissimi, oggi è però necessario incentivarne l’applicazione. O almeno comprendere perché l’Italia digitale continua a girare a vuoto.

 

  1. La semplificazione digitale all’italiana

In un sistema che è rimasto burocraticamente analogico e strettamente legato allo status quo, come quello italiano, l’evoluzione del digitale sembra non riuscire a trovare un suo concreto spazio di attuazione. Il nostro Paese, infatti, deve risolvere problemi ben più concreti e reali legati alla semplificazione dei procedimenti amministrativi, alla valorizzazione di competenze multidisciplinari necessarie per gestire processi e procedimenti digitali, all’alfabetizzazione dei cittadini – anche alla luce del diritto all’uso delle tecnologie digitali – e a implementare la fruibilità di siti web pubblici.
Un sito web della PA non usabile rimane una piattaforma web inaccessibile anche quando contiene qualche ottima APP appena sviluppata in ottica open data. Facciamo un’altra considerazione: se il “back office” di un ente pubblico non è realmente digitalizzato e non garantisce archivi digitali sicuri, esatti e autentici, come si può garantire davvero una amministrazione trasparente e open oriented, magari attraverso la predisposizione di siti web e database disponibili a livello centrale?

Se a contare non fossero solo le parole, ma anche i fatti, basterebbe guardare e replicare gli esempi virtuosi di alcune amministrazioni italiane per ripartire.
Il modello di cambiamento dovrebbe essere preso proprio da quelle, seppur poche, pubbliche amministrazioni (centrali e locali) virtuose che son riuscite ad avviare processi amministrativi digitali effettivi ed efficaci.
L’intoppo però sta nel fatto che queste stesse PA, seppur virtuose, sono costrette a combattere tutti i giorni con una normativa schizofrenica e in continuo movimento che sempre più spesso cambia obiettivi e strategie e sempre di più – come vedremo – sembra abdicare alla logica dell’autonomia amministrativa (pur se da sviluppare lungo i nuovi binari del digitale), per innamorarsi pericolosamente di soluzioni e piattaforme informatiche pubbliche offerte e disponibili a livello centrale.

  1. Cosa c’è che non va?

Effettivamente sembra proprio che l’Italia ormai abbia deciso di abdicare alla coerenza logica.
In tutti questi anni si sono registrati una serie di fallimenti: nessun ordine archivistico a livello locale, non ci sono database e sistemi di gestione documentale interoperabili per i quali siano stati forniti alla PA standard e metodi condivisi, non sono state sviluppate regole tecniche adeguate e riferimenti precisi a standard in modo da favorire anche il riuso di software nella PA, non sono ancora disponibili competenze multidisciplinari in grado gestire tali processi.

Nonostante sia impossibile non essere consapevoli di questo indubbio fallimento la soluzione migliore è davvero quella di centralizzare tutto?

Così sembra, almeno osservando le ultime scelte del legislatore in materia, dove si respira un nauseabondo rigurgito statalista in ambito digitale.

Comprendo – lo ripeto – che questa scorciatoia sembra essere oggi l’unica strada possibile.  Ma – a ben guardare – lo sviluppo di mirabolanti soluzioni e piattaforme informatiche centralizzate senza semplificare nulla all’interno delle nostre PA e lasciando tutto come è adesso a livello burocratico rischia (ovviamente) di rivelarsi una colossale barzelletta.

Davvero possiamo ipotizzare che un bel modello digitale centralizzato imposto a livello statale collocato nel caos burocratico più totale possa servire a qualcosa nel nostro Paese?

Questa sembra, purtroppo, la strada tracciata.
Un insieme di progetti calati dall’alto: SPID, che ormai sembra a dir poco disorientato[4]; il processo civile (ma anche tributario o amministrativo) telematico dove i giudici a livello locale continuano a pretendere copie (cartacee) di cortesia; la stessa trasparenza delle PA che sembra adesso spostarsi verso la creazione di dataset centrali da rimpinguare a cura di distratte e svogliate PA locali; l’anagrafe unica[5] dove l’unico comune che ha davvero avviato il progetto è quello di Bagnacavallo; il Sistema Pubblico di Connettività che dopo anni di parole e stanziamenti ancora è diffuso a macchia di leopardo sul territorio nazionale e così via.
Un lungo elenco, eppure l’esperienza del disastro (annunciato) della CEC Pac nazionale[6] avrebbe dovuto insegnare qualcosa…no?

  1. Non ci sono scorciatoie

Ci spiace dirlo, ma per il nostro Sistema Paese, che a parole da anni ha intenzione di puntare su semplificazione e digitalizzazione dei suoi servizi amministrativi, garantendo trasparenza al nuovo cittadino digitale non ci sono ipocrite e inutili scorciatoie.

Le parole d’ordine se si vuole davvero cambiare passo sono: usabilità, sicurezza, certezza degli archivi digitali e interoperabilità dei database e sistemi (diversi) utilizzati dalle singole PA. A cui si aggiunge ovviamente l’indicazione di precisi standard da seguire in regole tecniche aggiornate.
Tutto questo è realizzabile davvero solo se si costruisce e si pretende consapevolezza per cittadini, dipendenti pubblici e dirigenti. Ma anche imprese. C’è un intero sistema Paese da ricostruire in termini digitali, e solo su questi presupposti possono poggiarsi open data e trasparenza. Lo ripeto ancora: senza alibi o scorciatoie.

Aggiungo una parola magica che dovrebbe essere la premessa di ogni azione: semplificazione di norme e procedimenti amministrativi. Senza una vera semplificazione (prima di tutto normativa) il digitale serve a poco e si posa sul caos, rendendolo solo più trasparente e contorto.

A salvarci non bastano campioni digitali o straordinari Team in grado di elargire nuove promesse in uno storytelling che ormai è davvero diventato indigesto perché si ripete da anni, troppi anni.

Basta. Pretendiamo un po’ di sano silenzio. Proviamo a ricominciare davvero con pazienza e serietà.
Noi inizieremo dal prossimo DIG.Eat in programma il prossimo 23 marzo a Roma (Centro Congressi Fontana di Trevi, Piazza Pilotta 4) e toccherà a voi scegliere tra pillola blu e pillola rossa intese come la possibilità di scegliere tra quello che ci raccontano della digitalizzazione e quello che è realmente lo stato del digitale in Italia.

Iscrivetevi gratuitamente, vi aspettiamo numerosi per confrontarci insieme sul digitale partendo da situazioni concrete, perché ogni limite ha una pazienza, direbbe Totò!

Note:

[1] Di semplificazione della PA si parla da sempre nel nostro Paese. Si ricordi, ad esempio, il “Rapporto sui principali

problemi della amministrazione dello Stato”, che l’allora  Ministro  della  Funzione  pubblica  nel  governo  Cossiga, Massimo  Severo  Giannini,  inviò alle Camere nel mese di novembre del 1979. Dopo Giannini ci ha provato Bassanini a semplificare, decertificare, “sburocratizzare”, anche attraverso l’uso sapiente dell’informatica nella PA.
“Troppo spesso nel nostro Paese sono le semplificazioni che creano burocrazia. Nei giorni scorsi il servizio permanente effettivo di propaganda governativa ha magnificato i dati della riduzione dei certificati, segnalando che da quando è stata attivata la normativa sulla “decertificazione” si sono ridotti del 54%. Ovviamente, nessuno ha rivelato l’altra parte di questa mezza verità: sparito il documento “certificato”, al suo posto è subentrato il documento “verifica della veridicità della dichiarazione sostitutiva”. Nella sostanza, per la pubblica amministrazione il carico di lavoro non si è affatto ridotto, anzi è aumentato. […]”. Così, dal Blog di Oliveri in data 16 settembre 2012: http://luigioliveri.blogspot.it/2012/09/semplificazioni-che-creano-burocrazia.html.

[2] “Entro due anni la nostra vita potrà registrare un salto di qualità: niente più code interminabili ai vari sportelli degli uffici pubblici, non più estenuanti ricerche dell’impiegato competente o dell’ennesimo certificato necessario per completare una pratica” è il commento di Claudio Sonzogno a seguito della Riforma proposta dal Ministro Bassanini (dalla rivista mensile Business 2.0 di novembre 2000 – un estratto alla pagina http://www.privacy.it/e-amm.html).

[3] L'(in) foia tutto italiano ha di fatto azzannato la trasparenza contenuta nel d.lgs. 33/2013, burocratizzandola, riempiendola di cavilli (in un coacervo di termini di applicazione mezzi rinviati e mezzi no). Il caos. Per un approfondimento sul Freedom of Information Act tutto italiano si consiglia la lettura di “E se lo storytelling della PA digitale fosse il funerale della trasparenza?” disponibile su CorCom alla pagina http://www.corrierecomunicazioni.it/pa-digitale/41221_e-se-lo-storytelling-della-pa-digitale-fosse-il-funerale-della-trasparenza.htm.

[4] Si è parlato a sproposito di PIN unico. Si è travisata l’identità digitale con strumenti di identificazione informatica.

Non si è specificato in una precisa strategia quali servizi della PA sono realmente attivabili con il livello più basso di SPID.  Quante di queste “identità” SPID saranno attive dopo aver ricevuto il finanziamento per il quale sono state attivate? Perché dovrebbero rimanere attive se i servizi della maggior parte delle PA non sono attivabili on line? Non possiamo non porci queste domande in modo netto e a costo di sbattere la faccia sul muro dei problemi reali di questo paese.

Identità SPID senza servizi reali digitali e senza un reale processo di semplificazione e digitalizzazione del “back office” amministrativo dell’ente sono e resteranno inutili…Purtroppo. Merita uno sguardo la lettura del breve intervento di Fulvio Sarzana in materia di SPID disponibile alla pagina https://www.key4biz.it/linsuccesso-spid-gli-occhi-tutti-intervento-di-fulvio-sarzana/183556/

[5] Merita uno sguardo L’Anagrafe digitale unica degli italiani? Un flop!  Disponibile alla pagina https://www.tomshw.it/l-anagrafe-digitale-unica-degli-italiani-flop-83355.

[6] http://parer.ibc.regione.emilia-romagna.it/notizie/cec-pac-i-tanti-perche-di-un-fallimento

Exit mobile version