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La Rai che vorrei. C. Spada: ‘Risorsa editoriale e industriale che serve al Paese’

Celestino Spada

Celestino Spada

Quando una tassa di scopo come il canone di abbonamento alla radiotelevisione finisce nella fiscalità generale e di qui nella bolletta elettrica delle famiglie non è detto siano assicurate chiarezza e distinzione al rapporto fra mezzi e fini dello Stato nell’audiovisivo. Né che si creino migliori condizioni di consenso popolare e di sostegno da parte di partiti e movimenti politici: le condizioni di esistenza e legittimità, insieme alle norme, della “missione” della Rai e della sua ragion d’essere di servizio pubblico, così compromesse nell’esperienza degli ultimi venti anni.

L’iniziativa di key4biz.it e la discussione avviata da Flavia Barca su finalità e contenuti del rinnovo della Convenzione Stato-Rai che siano adeguati alle necessità della società e dell’industria italiana, inducono a richiamare i principali connotati dello status quo della Rai: la “presa” dei palinsesti pubblicitari sull’offerta delle sue reti, in specie televisive; il privilegio (insieme alla cronaca nera) della politica e del personale politico nei formati e temi e volti dell’offerta, nelle scelte e obiettivi e strutture e organici, dell’informazione; l’outsourcing più o meno formalizzato di funzioni editoriali strategiche in alcuni comparti dell’intrattenimento e dello spettacolo. Con questi interessi costituiti e rendite di posizione, dentro e fuori l’azienda, con le relative mentalità e routine di gestione, devono misurarsi gli organi dirigenti della Rai per i quali la nuova Convenzione potrà essere un incentivo o un ostacolo all’azione di rinnovamento. È evidente che senza il pieno recupero della sovranità sulle sue scelte strategiche e operative, l’impresa Rai non potrà affermarsi come la risorsa editoriale e industriale di cui il Paese ha bisogno, e non finirà di essere quasi solo un accumulo di risorse finanziarie nella disponibilità, o preda possibile, dei più vari interessi costituiti dentro e fuori di essa.

È utile insistere nell’analisi del presente prima di dar voce agli auspici e ai desideri. L’esigenza di un profondo cambiamento è diffusa nel Paese e, nel ciclo della comunicazione, fra i creativi e i produttori, nei mestieri e nelle professioni dell’audiovisivo, nell’industria e nella ricerca, e in tanta parte del grande pubblico (dei vari pubblici) dei media e della rete. Essa è radicata nella constatazione, ormai insofferente, per quanto di ripetitivo e unilaterale nei linguaggi, nei formati, nell’orizzonte mentale e nella qualità del lavoro e del prodotto propone ancora oggi “l’abbondanza” di opportunità di consumo, celebrata dalla comunicazione commerciale. Ed è insieme alimentata, quella esigenza, dalla consapevolezza di quanto le imprese che dominano l’industria italiana dell’audiovisivo non danno ai consumatori e ai cittadini in termini di prodotti e servizi originali offerti, nelle reti generaliste come in quelle tematiche o dedicate ai più vari pubblici: siano essi  innovativi nei generi più popolari o i linguaggi e i formati e i prodotti che nuove motivazioni e aspettative qualitative di crescita personale e di relazioni sociali più ricche nel pubblico, possono promuovere, nella varietà degli approcci e delle professioni coinvolte, nell’intrattenimento, nei giochi, nell’animazione, nell’edutainment, nella fiction, nell’informazione, nei documentari, nei film (come, peraltro, già accade nella pubblicità). E tutto ciò sia in assoluto, sia relativamente a quanto realizzato e offerto nei paesi più avanzati d’Europa e del mondo, i cui prodotti, importati sul mercato mediale o direttamente accessibili in rete, sono “non a caso” graditi dal nostro pubblico.

Le ragioni dell’intervento dello Stato nell’audiovisivo in Italia sono tutte in questo “fallimento del mercato” (e la citazione di Keynes è più che pertinente), per l’uso in prevalenza non produttivo delle risorse finanziarie e l’egemonia e l’asfissia che le pratiche del duopolio pubblico/privato della televisione e l’orizzonte mentale della “produzione di pubblico” per la comunicazione commerciale hanno imposto agli autori ai creativi ai produttori, e ai consumatori. Un orizzonte mentale e una cultura a cui la Rai si è resa subalterna. La multimedialità che, nel modello del determinismo tecnologico, sarebbe venuta a cambiare e innovare il tutto, è risultata legata più ai consumi di prodotti importati che alla diversificazione delle linee produttive e alla nascita di nuove imprese, ed è stata segnata più dalla retorica dei consumi che dalle opportunità di lavoro offerte dall’industria ai talenti sperimentati e nuovi, sfidati a realizzare nuovi prodotti e servizi da offrire ai più vari pubblici italiani sui nuovi canali, come sulla Grande Rete. Con il risultato che il sistema italiano della multimedialità registra oggi, accanto alla crisi profonda delle industrie culturali tradizionali alle prese con i soggetti dominanti e i processi dell’economia digitale mondiale, il non-sviluppo di imprese e comparti produttivi nuovi cui si accompagna un livello di consumi tradizionali e nuovi più bassi e di accessi alla rete asfittici, rispetto a quanto si registra nei paesi europei e del mondo con cui ha senso confrontarci. Un quadro di sottosviluppo, segnato anche dalla scarsa utilizzazione delle tecnologie ICT da parte di individui, imprese e pubblica amministrazione, e da un tasso di analfabetismo digitale che si somma alla caduta dei livelli delle competenze (Literacy e basic skills) e di partecipazione culturale, registrata dall’OCSE e segnalata da anni da osservatori come Tullio De Mauro, Adolfo Morrone, Giovanni Solimine ed Enrico Giovannini.

Il canone di abbonamento alla radiotelevisione è l’unica risorsa pubblica disponibile per perseguire oggi in Italia senza indugi strategie di sviluppo produttivo, culturale e civile, di crescita di condizioni e competenze di base, mirate agli obiettivi “di sistema” che lo stato delle cose presenti indica a una classe dirigente degna di questo nome. Una risorsa che, per fortuna, ha ancora la consistenza di una massa critica adeguata a (pensare di) riprendere a fare industria a tutto campo nell’audiovisivo. (Confesso che, distinto il “valore per il pubblico” dal “valore per il sistema industriale”, mi è difficile districarli nell’attività e nell’offerta della Rai del passato (ricco) e del presente (modesto)). Le risorse da canone non possono che essere tutte impegnate a questi fini, riqualificando e rinnovando il personale, gli indirizzi editoriali e le linee produttive, le più varie competenze di cultura e lavoro nell’azienda di servizio pubblico e attorno ad essa, nei rapporti di collaborazione che in tutti i generi di programmi, da sempre, assicurano alla Rai l’apporto di autori, registi, artisti, produttori, artigiani, tecnici, studiosi, storici, scienziati, giornalisti italiani ed europei, e di tutto il mondo. È già accaduto nell’esperienza comunicativa della Repubblica: negli anni 1950 con gli investimenti strategici in impianti e personale di Filiberto Guala, negli anni 1960-1980 con la direzione di Ettore Bernabei e i programmi diretti da Angelo Romanò, Fabiano Fabiani, Leone Piccioni, Giuseppe Antonelli e poi, nel quadro della riforma, con le reti guidate da Mimmo Scarano, Massimo Fichera, Enzo Forcella, Emmanuele Milano, Angelo Guglielmi, le testate dirette da Emilio Rossi e Andrea Barbato, la direzione fiction di Sergio Silva. Ideologie e pregiudizi anti-industriali possono avere ottuso la percezione e il giudizio di quell’esperienza e favorito la deriva che ci ha portato dove siamo. Ma la strada è quella: un impegno d’impresa, vocato ai classici obiettivi di svago, informazione e conoscenza e capace – non solo a tratti e per isole – di aprirsi ancor più alla società, includendo nel flusso una realtà umana sempre più composita e proponendo un racconto più ricco dell’Italia agli italiani e al mondo. Un impegno che si assuma il rischio di un ruolo seminale e dell’innovazione di risorse, processi e prodotti finiti, verificandoli sul pubblico in termini di qualità e di ascolti. Con un’offerta che, diversa su reti generaliste e tematiche, assuma su Internet i caratteri di un servizio anche interattivo reso al Paese.

Questo mandato politico-editoriale e di politica economica può e deve essere affidato agli organi dirigenti della Rai con la nuova Convenzione, definendo un quadro che assicuri ad essi il pieno controllo e governo delle risorse: le condizioni della loro responsabilità verso le istituzioni e verso il Paese nel perseguimento di quegli obiettivi. Un quadro snello, che faccia tesoro, liquidandola, dell’esperienza istituzionale ormai quarantennale della riforma della Rai e di quella scolpita nella legge n. 112/2004. La prima, che per la continuità (rara) di una “costituzione materiale” dei rapporti fra Parlamento e Rai centrata sulla mentalità e la pratica delle “spettanze” e delle “appartenenze” di strutture e ruoli aziendali ai partiti, testimonia del credito e del rispetto che da noi riscuote l’idea che le istituzioni e le relative funzioni sono (devono essere) finalizzate all’interesse nazionale e alla promozione del pluralismo culturale, professionale, economico, oltre che politico, della collettività. Una “costituzione materiale” che ha dato il modo, nei decenni, a tutte le parti politiche di “non riconoscersi” nella gestione della Rai e di non assumersene, neppure pro quota, la responsabilità: fino a non proporre l’adeguamento periodico del canone come, invece, è avvenuto in Europa. E la seconda, la legge cd. Gasparri, con il suo “servizio pubblico generale” ridotto alle voci e alla lista della spesa di Stato, Regioni e Province Autonome, resi titolari di attività che fin dagli anni 1920 sono state considerate a carattere manifatturiero, tanto da essere incardinate a suo tempo nell’IRI. Una normativa che ha sancito lo spappolamento della consistenza e responsabilità d’impresa della Rai, anche incaricando l’Autorità garante e il Ministero di «fissare le linee-guida» dell’attività connessa al servizio, «definite in relazione allo sviluppo dei mercati, al progresso tecnologico e alle mutate esigenze culturali, nazionali e locali»!

L’imperativo categorico della piena investitura dei poteri e delle responsabilità tipici dell’industria agli organi dirigenti della Rai non può ignorare oggi il fattore tempo di scelte e decisioni che lo stato del corpo politico della Nazione rende non prevedibile. Potrebbe soccorrere – è una proposta – richiamare in vita la legge 25 giugno 1993, n. 206, elaborata e approvata da un Parlamento che, fatto il bilancio dell’esperienza di riforma avviata diciotto anni prima, definiva orizzonte mentale, poteri istituzionali di investitura e verifica, mandato, ruolo, strumentazione operativa e responsabilità di una Rai società per azioni, media company (già allora!) di servizio pubblico. Una normativa frutto del confronto intellettuale e politico, critico e propositivo dei primi anni 1990, che, “tale e quale”, potrebbe benissimo improntare la nuova Convenzione Stato-Rai. A questa scelta potrebbe accompagnarsi la considerazione della Nota al provvedimento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato del 16 novembre 2004, che invitava a “ripensare l’attuale normativa in materia di servizio pubblico radiotelevisivo, immaginando per la Rai una soluzione simile a quella adottata in Gran Bretagna, con due società distinte: la prima con obblighi di servizio pubblico generale finanziata esclusivamente attraverso il canone; la seconda, a carattere commerciale, che sostiene le proprie attività attraverso la raccolta pubblicitaria e che compete con gli altri soggetti sulla base dei medesimi obblighi di affollamento”. Una soluzione da preparare, evidentemente, da subito, indicando nel prossimo contratto di servizio obiettivi concreti, come possibili misure di avvicinamento (ad es. la riduzione della pubblicità su fasce di programmazione di qualche rete maggiore – già oggi la Rai ha annunciato questa misura per alcuni programmi e reti tematiche) e come le ristrutturazioni più necessarie, a partire da quella dell’informazione televisiva, già pianificata dal direttore generale e dal CdA precedenti e già passata al vaglio del Parlamento nel febbraio 2015. Una prospettiva ravvicinata che taglierebbe i costi aziendali e libererebbe risorse sul mercato pubblicitario, anche incrementando il valore di spazi di pregio, e che farebbe della “Rai che vorrei” il volano dello sviluppo e il promotore del pluralismo delle imprese, a lungo umiliato dalle pratiche del duopolio, contribuendo la sua parte a porre su solide basi un’altra, irrimandabile, innovazione di sistema: la formazione di un comparto produttivo esterno ai broadcaster, e quindi indipendente, con la ricezione, finalmente, nel nostro ordinamento della normativa europea che lega l’indipendenza dei produttori dell’audiovisivo alla titolarità di una library di diritti.

Mi piace chiudere questa nota riprendendo la proposta di Flavia Barca (v. il testo sul sito http://www.flaviabarca.it/) di “una versione rinnovata dello storico centro studi ‘Verifica qualitativa programmi trasmessi’ (Vqpt-Rai) che divenga luogo di dibattito e confronto continuo” di ricercatori e programmisti e produttori e giornalisti sui caratteri e i temi dell’offerta e le problematiche delle imprese e dei mercati audiovisivi, in Italia e in Europa cui tutti possano trovare idee e spunti di riflessione. Nel patrimonio storico della Rai-monopolio pubblico e poi, dall’avvio della riforma, impresa sul mercato aperto c’è anche questo – fin dagli anni Trenta e poi, con grande consapevolezza, negli anni 1950-1970: di aver promosso la ricerca italiana sulle comunicazioni di massa e i successivi sviluppi negli studi e insegnamenti universitari fino ai primi anni 2000, pubblicandone i risultati. Un’esperienza annichilita nella Rai del duopolio, non interessata evidentemente a un’attività e a prodotti che non hanno avuto equivalenti in quanto reso poi disponibile dal famoso “mercato”: una perdita secca per la ricerca e la collettività nazionale.

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