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La Rai che vorrei. A. Preta: ‘Anytime, anywhere e multiscreen’

Internet ha cambiato in maniera drammatica le dinamiche sociali e industriali. Vent’anni dopo la nascita dell’internet moderna, sempre più grandi aziende ed imprese vengono gestite via software e distribuiscono servizi online. Da un lato Internet sta generando un valore economico immenso, dall’altro, sta avendo un effetto distruttivo su un grande numero di settori.

La combinazione di connettività internet e di reti a banda ultra-larga, ampio uso di dispositive mobili, rapidi sviluppi di applicazioni innovative permettono al mondo online di interagire con il mondo fisico. Il mondo fisico costituisce ancora la maggior fetta dell’economia, ma le sue interazioni con internet impattano drasticamente l’economia e le nostre vite quotidiane: Uber nei trasporti, Airbnb nell’ospitalità, Groupon nella ristorazione, gli smart-watch nella salute, altri servizi nella logistica, nell’entertainment, nei servizi domestici, etc.

L’esplosione dei servizi di contenuto video e dell’intrattenimento online ha fondamentalmente introdotto il nuovo capitolo dell’economia digitale. Vari tipi di prodotti e di servizi di comunicazione vengono oggi consegnati online, attraverso reti IP, accedendo e consumando su piattaforme multiple, in tempi e luoghi differenti, su vari dispositivi: grazie a questo processo, la tanto attesa convergenza dei media sta diventando realtà.

Questo sviluppo ha un grande impatto nei mercati tradizionali dell’audiovisivo e cambiano completamente le dinamiche all’interno del sistema dei media, con innegabili vantaggi e qualche rischio per i consumatori, i cittadini e le aziende, rispetto al tradizionale modello del broadcast uno a molti su cui per 60 anni si è sviluppato il sistema televisivo e modellato quello dei media.

In questo contesto un servizio pubblico deve interrogarsi ancor più che in passato sul proprio ruolo e cercare di capire che spazio, funzione e soprattutto missione possa avere in un universo in così rapida e profonda trasformazione.

Queste domande sono ancora più complicate dal fatto che non stiamo parlando solo dell’oggi, dove peraltro un servizio pubblico come la Rai fa fatica a liberarsi del pesante fardello del passato, caratterizzato da una forte dipendenza dal potere dei partiti e della politica, e da scelte “strategiche” talvolta imbarazzanti per un soggetto di servizio pubblico (vedi il digitale terrestre e il modello di integrazione verticale con comportamenti apparentemente inspiegabili come l’uscita dal pacchetto Sky), ma in una prospettiva a 10 anni dove data la rapidità dei cambiamenti che ci troveremo ad affrontare saranno ben maggiori e “distruttivi” di quelli avvenuti nei 10 anni passati.

Alcuni punti fermi da cui ripartire comunque sembrano tuttora validi anche in prospettiva futura: un servizio pubblico non può che essere universale, e dunque anche multi-piattaforma, perché deve raggiungere tutti i cittadini in qualunque modo abbiano accesso non solo alla televisione, ma a tutti quegli strumenti e apparati in cui si diffonde informazione e conoscenza, e si comunica e si forma l’opinione pubblica.

C’è quindi un problema e dunque un ruolo chiave di alfabetizzazione digitale, che non è assolutamente il maestro Manzi 2.0, ma la capacità di facilitare l’utilizzo di Internet alla fasce di popolazione che ancora non vi hanno accesso (superamento del digital divide) e degli strumenti della comunicazione più avanzata con contenuti differenziati in rapporto ai differenti bisogni ed interessi della popolazione per portare avanti, anche nel nostro Paese,  il progetto di innovazione culturale che ci porti al livello delle realtà più avanzate in Europa e a livello globale, recuperando il grave ritardo accumulato in questi anni.

Tutto ciò rappresenta un’impresa titanica, che passa attraverso il passaggio da servizio radio-diffusivo, con al centro la televisione, a digital media company, ovvero un’azienda capace di produrre e distribuire contenuti fruibili in ogni luogo e in qualsiasi momento nonché attraverso qualunque dispositivo.

Sul piano editoriale questo vuol dire che oggi la sfida si sposta dalla dimensione nazionale a quella globale, internet rappresenta un elemento di discontinuità di gran lunga più drammatico per i broadcaster di quello rappresentato dalla tv digitale. Modelli di disintermediazione come quelli espressi dai social media si affermano, insieme a nuovi attori (aggregatori, distributori video a richiesta, i cosiddetti over the top come Netflix, Amazon, Google e Facebook) che mettono in crisi gli equilibri consolidati, tentando di sostituirsi agli editori tradizionali nel rapporto con l’utente finale.

La competizione per un editore televisivo, ancor più se di servizio pubblico, è oggi più che mai sui contenuti e sulla loro capacità di essere attraenti, convenienti e accessibili in ogni momento, in ogni luogo e su ogni apparato e piattaforma. Questo significa abbandonare battaglie di retroguardia che non hanno più senso economico ed estranee alla missione di servizio pubblico, quale l’integrazione verticale, puntando sulla qualità del prodotto e l’innovazione dei servizi. Su questa partita, dell’universalità, dell’innovazione, della creatività e della qualità, e non su altre volte a creare giardini chiusi e ostacoli all’accesso, dove sono state consumate troppe energie e risorse, si gioca da qui a 10 anni il futuro del servizio pubblico nel nostro Paese.

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