l'analisi

La polveriera americana: le ragioni di un conflitto interno che pesa sul mondo (Parte 1)

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Viene da chiedersi quali siano le guerre che potrebbero scoppiare nel 2023 e ci si accorge presto che si potrebbe fare una lista di paesi che non hanno mai smesso di trovarsi al centro di tensioni e che potrebbero facilmente innescare reazioni su larga scala.

All’inizio di ogni nuovo anno è costume che vengano pubblicati – su carta stampata e in rubriche specializzate alla radio e alla televisione – gli oroscopi dettagliati mese per mese, segno zodiacale per segno zodiacale, e poco importa se le stelle che tradizionalmente sono supposte comporre i Pesci o il Sagittario in realtà, nello spazio tridimensionale dell’universo, distano l’una dall’altra numerosi milioni di anni luce e quelle forme non sarebbero riconoscibili come le immaginiamo dal nostro punto di vista.

Similmente i media si occupano di prevedere lo stato di salute della pace nel mondo per l’anno iniziato e, per farlo, di solito, non tessono le lodi degli stati virtuosi e pacifici, che attirerebbero ben poca attenzione e gli autori potrebbero essere tacciati di buonismo a oltranza, ma compilano piuttosto una lista dei conflitti in corso e di quelli che potrebbero passare da focolai di conflitto a conflitto aperto, riducendo le distanze geografiche, politiche, culturali e militari a schematiche discussioni o disquisizioni o ipotesi (spesso self serving hypothesis).

Un mondo pieno di focolai di guerra

Viene da chiedersi quali siano le guerre che potrebbero scoppiare nel 2023 e ci si accorge presto che si potrebbe fare una lista di paesi che non hanno mai smesso di trovarsi al centro di tensioni e che potrebbero facilmente innescare reazioni su larga scala.

Si pensi a focolai di crisi come Taiwan e Cina (preso in considerazione da quasi tutti i media, non solo occidentali), Grecia e Turchia (divisione di Cipro, due paesi entrambi membri della NATO, ingresso nell’UE della Turchia, crisi migratoria, esplorazione energetica nel Mar Egeo), Penisola Coreana (test missilistici, arsenale nucleare, violazione dello spazio aereo della Corea del Sud, la successione di Kim Jong-un), Cina e India (diatribe sui confini himalayani e non solo).

Nel testo che segue utilizzerò più frequentemente il termine “polveriera” in luogo di “potenziale conflitto” o “focolaio” o “tensione” per descrivere queste situazioni, poiché ritengo che esso li comprenda tutti e tre, descriva in modo più grafico i reali pericoli e sia più evocativo di qualcosa di concreto come può essere un’esplosione.

D’altra parte, non essendo in grado di seguire con la dovuta competenza le trasmissioni televisive o radiofoniche spagnole o tedesche o arabe (salvo Al Jazeera in inglese) o di leggere quotidiani e periodici in quelle lingue, debbo limitare le considerazioni che seguiranno a quanto ho potuto apprendere dai media in lingua italiana, francese e inglese per elaborare queste analisi e ipotesi.

Russia, Ucraina e non solo

Ovviamente in questi mesi inziali del 2023 la guerra tra Russia e Ucraina è al centro dell’attenzione generale, anche perché numerose sono le ricadute dirette e indirette di questo conflitto in molti paesi, non solo occidentali, tra cui anche in Italia.

Per gli autori che pubblicano sui media dei paesi occidentali e per coloro che leggono/ascoltano/guardano si può dire che, tra le polveriere attuali, sono generalmente prese in maggiore considerazione la potenziale estensione della guerra tra Russia e Ucraina, con notizie che sono aggiornate di frequente, anche nel corso di una stessa giornata; la tensione politica e militare tra Cina e Taiwan, con sullo sfondo il contrasto CinaUSA per quel che concerne l’intera area del Pacifico, contrasto reso ancora più acuto dal recente episodio del sorvolo sopra una gran parte del territorio americano di un pallone stratosferico cinese e dall’accordo AustraliaUKUSA per la fornitura di sottomarini nucleari alla stessa Australia (accordo AUKUS per $ 368 miliardi); la situazione interna dell’Iran ed esterna con gli Stati Uniti, Israele e altri paesi occidentali riguardante la questione nucleare; le tensioni interne della Corea del Nord concernenti l’ipotetica successione a Kim Jong-un ed esterne per quel riguarda gli armamenti nucleari e lo sviluppo della capacità dei missili, incluso il lancio in marzo di missili intercontinentali; le politiche repressive dei Talebani in Afghanistan che stanno creando o accentuando divisioni regionali e tribali, per non parlare dell’oppressione esercitata sulle donne.

Tale situazione è presente in numerosi paesi, in gradi più o meno prossimi allo scoppio di veri e propri conflitti armati, ma l’attenzione dei media occidentali è assai variegata, spesso superficiale e/o poco informata in base a fonti attendibili vicine agli eventi.

I conflitti dimenticati…

Se in tutti questi casi l’attenzione dei media e del pubblico più informato dei paesi occidentali è costante e mantenuta a livelli alquanto elevati, questa diminuisce di parecchio nei confronti di altre, numerose polveriere che riguardano aree più lontane o meno strategicamente rilevanti secondo le opinioni dominanti e altri aspetti politico-strategici locali: per esempio, i conflitti in corso in Yemen, Libano, San Salvador, Peru, Brasile sono considerati principalmente conflitti interni, nonostante riguardino gli interessi di altri paesi quali l’Arabia Saudita o soprattutto gli Stati Uniti.

Ai numerosi conflitti in corso in Africa – tra gli altri Somalia, Etiopia (Tigray), Sudan del Sud, Mali, l’est della Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centroafricana, Chad, Libia, Burkina Faso, Nigeria – i media dedicano ben poco spazio, con le eccezioni principalmente di Le Monde e France 24 per quel che concerne i paesi francofoni e The Guardian per l’ampia copertura giornalistica che è propria di questo quotidiano. Nei media degli Stati Uniti questi paesi sono praticamente assenti, salvo per quel che riguarda periodici specializzati o che rappresentano interessi economici specifici o per alcuni articoli di opinionisti pubblicati da quotidiani come il New York Times o Washington Post.

L’annuncio dell’accordo tra Arabia Saudita e Iran, di cui non erano trapelate notizie e non sono ancora noti i termini, potrebbe ulteriormente destabilizzare il Medio-Oriente.

Questi paesi sono generalmente ignorati dai media italiani, salvo in parte la Libia e, a dimostrazione non solo di una mancanza d’interesse per gli accadimenti in questi paesi, nonostante i discorsi sui migranti, che dovrebbero riguardare quasi tutti quei paesi, ma anche di una mancanza di una qualsiasi politica economica e industriale nei loro confronti, in contrasto con gli interessi diretti di alcune grandi società italiane del settore energetico; fanno eccezione per esempio Algeria e Angola che più recentemente sono stati presenti nei media perché possono diventare fornitori di gas, ma solo di energia sempre si tratta.

E quelli sempre vivi: Israele

Attualmente Israele è di nuovo seguito attentamente dai media dei paesi occidentali a causa dell’insediamento molto recente del quinto governo Netanyahu; la visita all’inizio dell’anno alla Spianata delle Moschee di Ben-Gvir, Ministro per la Sicurezza nazionale e membro di un partito ultraconservatore, gli scontri che hanno già provocato morti sui due fronti, il tentativo in corso da parte del governo di assoggettare gran parte del potere giudiziario a quello legislativo, contrastato da importanti manifestazioni da parte dei cittadini laici, non sembrano essere di buon augurio nel quadro del conflitto latente con i Palestinesi; questi avvenimenti sono stati riportati ampiamenti nei media e in generale sono stati commentati negativamente o anche con preoccupazione.

Tutte queste polveriere, in essere o potenziali, presentano alcune caratteristiche comuni: sorgono per ragioni quasi sempre prevedibili, si sviluppano secondo modalità quasi sempre prevedibili, si risolvono secondo schemi che generalmente non esulano dai modi di risoluzione di conflitti del passato: c’è un vincitore e c’è un vinto oppure i contendenti raggiungono un accordo che ciascuno ritiene possa essere “venduto” o “imposto” alle proprie parti (constituencies).

Il caso degli Stati Uniti e la miccia Donald J. Trump

La situazione attuale degli Stati Uniti non rientra in nessuno di questi casi, ma presenta diverse possibilità di deflagrazione molto significative, che sono in parte sottovalutate o non interpretate correttamente tanto dai media dei paesi alleati che da quelli americani stessi (non sono in grado di scrivere se tale ipotesi sia o sia stata ventilata da media russi, cinesi o arabi): il conflitto latente (la polveriera) è completamente interno e presenta in parte caratteristiche simili a quelle che portarono alla guerra civile del 1861-1865 e uno sfondo razziale è presente anche nel caso attuale.

La differenza fondamentale con il conflitto della guerra civile è un insieme di circostanze senza precedenti riguardanti tutti gli ambiti istituzionali, politici, giuridici e culturali della società americana. Anche se la polveriera attuale può essere collegata principalmente alle vicende della persona dell’ex-Presidente Donald J. Trump, ai suoi alleati politici, ai suoi finanziatori e ai sostenitori della sua base di elettori che comprendono forti gruppi di estrema destra, che è l’aspetto più noto al di fuori degli Stati Uniti e che sta polarizzando l’attenzione all’interno, gli altri ambiti costituiscono altrettante polveriere con potenzialità di deflagrazione secondo modalità e in tempi diversi.

Alcuni settori istituzionali di fondamentale importanza sono oggetto di continui attacchi da parte di personalità di primo piano del Partito Repubblicano e di gran parte dei suoi elettori – in particolare il Dipartimento della Giustizia (DOJ: Department of Justice) e il sistema giudiziario nel suo complesso. Questo sta provocando una potenziale instabilità dei poteri legislativo ed esecutivo in un momento storico di particolare complessità nel quale la posizione degli Stati Uniti come potenza economica e militare mondiale sta ridefinendosi.

Tutto il sistema politico – nazionale, statale, locale – presenta caratteristiche di polarizzazione quali non si sono mai verificate nella storia degli Stati Uniti dalla Guerra di Secessione, con entrambe le parti opposte che sostengono di essere il baluardo di difesa della democrazia americana.

L’ambito giudiziario discusso in questo scritto riguarda esclusivamente le investigazioni di natura criminale e civile nei confronti dell’ex-Presidente Donald J. Trump.

Le istituzioni e la politica locali, oltre ai diversi ambiti culturali, sotto molti aspetti costituiscono il background storico che ha portato alla polarizzazione generalizzata della società americana e a una potenziale, profonda crisi del suo sistema democratico.

Nonostante la polveriera sia esclusivamente interna, qualora essa esplodesse, data l’importanza degli Stati Uniti come potenza economica e militare mondiale, è necessario tener conto delle potenziali ripercussioni politiche, strategiche e militari tanto nel quadro delle alleanze che nei confronti dei maggiori oppositori, Cina e Russia.

Il quadro politico-istituzionale-culturale che, a mio avviso, costituisce la premessa per un’eventuale esplosione della polveriera è riconducibile da una parte alla presidenza di Trump, con ben due votazioni di impeachment alla Camera dei Rappresentanti, non confermate al Senato, d’altra parte agli avvenimenti in parte precedenti e soprattutto a quelli successivi alla sconfitta di Trump all’elezione presidenziale del novembre 2020.

Durante la campagna del 2016 che lo portò alla Casa Bianca, Trump innescò un movimento popolare con lo slogan “Make America Great Again” (MAGA); milioni di cappellini rossi con questa scritta apparvero durante i comizi insieme ad altri cartelloni con scritte volgari, ma soprattutto minacciose, nei confronti di Hilary Clinton (“Lock her up”), la candidata democratica.

Trump si rese conto nell’estate del 2020 che non avrebbe vinto e iniziò fin da allora a tenere discorsi nei quali parlava di possibili frodi elettorali.

Nei giorni immediatamente successivi all’elezione, con i suoi più stretti collaboratori iniziò una campagna battente per denunciare frodi elettorali; manomissioni di macchine per contare i voti dandone a Biden molti di più di quelli realmente registrati, attribuendo questo fatto a una società venezuelana; asserzioni che un satellite controllato dall’Italia controllava l’attribuzione dei voti e altre affermazioni totalmente estranee alla realtà dei fatti, ma che furono credute da numero molto elevato dei suoi elettori e sostenute anche da personalità di primo piano del Partito Repubblicano, e lo sono tuttora nel 2023.

La campagna presidenziale del 2020 e lo scontro che ne seguì

Gli slogan inventati da Trump furono “Stop the steal” e ”Rigged election”, ripresi da tutti i suoi seguaci e anche da parecchi membri repubblicani della Camera e del Senato. Furono organizzate in tutto il Paese manifestazioni per sostenerlo: i cappelli con la dicitura MAGA e i cartelli con la scritta “Stop the steal” furono presenti in numeri molto elevati a tutte le manifestazioni in presenza di Trump.

Va qui ricordato che l’elezione del Presidente degli Stati Uniti non è diretta, ma è eletto il candidato che ha raccolto la maggioranza dei Grandi Elettori (“Electoral College”): il gruppo di elettori presidenziali che la Costituzione richiede di essere formato ogni quattro anni con il solo scopo di nominare il Presidente e il Vicepresidente.

Ogni Stato dell’Unione ha un numero predefinito di Grandi Elettori, che si riunirono nel dicembre 2020 per votare. In tutti gli Stati, tranne Maine e Nebraska, tutti i voti dei Grandi Elettori sono attribuiti al candidato alla presidenza e vicepresidenza che ha ricevuto il maggior numero di voti validi nello Stato.

Il 6 gennaio 2021 era la data prevista per il voto del Congresso degli Stati Uniti (membri del Senato e della camera dei Rappresentanti riuniti in una seduta congiunta), seduta presieduta dal vicepresidente uscente, Mike Pence, il cui ruolo in questa circostanza è puramente formale, senza alcun potere decisionale sul voto. Nonostante fossero stati testimoni diretti dell’attacco al Campidoglio e si fossero rifugiati nei sotterranei del Campidoglio con tutti gli altri membri del Congresso, numerosi repubblicani della Camera e del Senato votarono contro la conferma di Joe Biden e Kamala Harris (140 votarono contro Joe Biden).

Al Senato i seggi assegnati furono 50-50, con il voto della Vicepresidente Kamala Harris che viene contato in caso di parità in una votazione, mentre alla Camera i democratici ebbero una maggioranza soltanto di 222 a 213.

Tra il 3 novembre 2020, data dell’elezione presidenziale, e il 6 gennaio 2021, data del voto per confermare il risultato delle elezioni, Trump e i suoi collaboratori più stretti misero in opera una serie di tentativi per sabotare il trasferimento pacifico del potere dal Presidente uscente al suo successore.

L’avvocato Rudy Giuliani, in particolare, condusse una campagna di azioni legali in tribunali di diversi Stati per ottenere nuovi conteggi dei voti e certificazioni da parte dei responsabili delle certificazioni stesse negli Stati nei quali la differenza tra i voti di Trump e Biden era inferiore a 1%; 61 cause legali su 62 presentate da avvocati e sostenitori di Trump furono perse o rifiutate dai giudici. In alcune occasioni i responsabili delle certificazioni ricevettero minacce personali da sostenitori di Trump e richieste da parte di Trump di cambiare l’esito.

Un altro tentativo consistette nel cercare di imporre a questi stessi Stati liste alternative di Grandi Elettori al posto di quelle legalmente costituite.

È del 2 gennaio 2021 una telefonata di Trump a Brad Raffensperger, repubblicano, Segretario di Stato della Georgia e responsabile della certificazione delle elezioni presidenziali nello Stato, di trovare 11.780 voti a suo favore; la telefonata fu registrata e Trump la confermò su Twitter:

Trump said: “So look. All I want to do is this. I just want to find 11,780 votes, which is one more than we have. Because we won the state.”

(Trump disse: “Allora senti. Tutto quel che voglio è questo. Voglio solo trovare 11.780 voti, uno di più di quelli che abbiamo. Perché abbiamo vinto lo Stato”).

He insisted: “There’s no way I lost Georgia. There’s no way. We won by hundreds of thousands of votes.”

(Trump insistette: “Non è possibile in nessun modo che abbia perso in Georgia. Nessun modo. Abbiamo vinto con centinaia di migliaia di voti in più”).

Raffensperger confermò tutto questo quando testimoniò sotto giuramento durante un’audizione pubblica dello House Select Committee on the January 6 Attack il 21 giugno 2022.

Parallelamente ad altri tentativi come questi, di cui alcuni chiaramente intimidatori, tra fine dicembre 2020 e il 6 gennaio 2021 altre azioni furono messe in opera, tra cui principalmente le pressioni esercitate sul Vicepresidente Mike Pence di ritardare l’elezione del 6 gennaio 2021 e di tener conto dei voti dei Grandi Elettori nominati illegalmente invece di quelli legittimamente eletti con lo scopo di far in modo che Trump rimanesse Presidente. L’avvocato John Eastman fu il principale sostenitore dell’obbligo di Mike Pence di non procedere come richiesto dalla Costituzione, pur sapendo che la richiesta era legalmente infondata e sarebbe stata respinta dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, ma servì allo scopo di sostenere Trump nella sua volontà di non riconoscere Joe Biden come legittimo Presidente eletto.

Nel frattempo, Michael Flynn, ex-consigliere per la sicurezza nazionale, con altri era in contatto con i gruppi di estrema destra Proud Boys e Oath Keepers, allertandoli di tenersi pronti a un’eventuale azione di forza, come successe realmente durante l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Molti di questi erano armati.

L’assalto al Campidoglio

Il 6 gennaio mattina, mentre Senatori e membri della Camera dei Rappresentanti erano in seduta congiunta nel Campidoglio per votare l’elezione di Biden, Trump si presentò su un palco improvvisato per parlare ai suoi sostenitori tenendo un discorso nel quale riaffermò la sua vittoria e le frodi compiute nelle procedure di voto e nel conteggio; alla fine del discorso invitò molto chiaramente i presenti ad andare al Campidoglio e a non cedere: “We’ll fight like hell” (Ci batteremo in tutti i modi).

Circa 16.000 persone marciarono verso il Campidoglio e l’assaltarono, penetrando all’interno e cercando di trovare Mike Pence e la Speaker democratica Nancy Pelosi, ormai nemici dichiarati per la folla; i morti furono cinque tra le forze dell’ordine, quattro tra i manifestanti e moltissimi furono i feriti.

In questa occasione, durante il discorso di Trump e poi davanti al Campidoglio, apparvero numerosi cartelli e striscioni con la dicitura “Hang Mike Pence” (Impiccate Mike Pence).

All’interno del Campidoglio i Senatori e i membri della Camera dei Rappresentanti si nascosero nei sotterranei, dove la figlia di Nancy Pelosi registrò in video gli avvenimenti (vai al video di Alexandra Pelosi al Campidoglio mostrato durante un’udienza dello House Select Committee on the January 6th Attack e all’intervista ad Alexandra Pelosi.

Occorre qui sottolineare l’importanza rivestita dai social networks, Facebook e Twitter, in tutti questi eventi: il coordinamento dei gruppi che assalirono il Campidoglio fu reso possibile fondamentalmente grazie alle comunicazioni online e in tempo reale che permettono questi strumenti di comunicazione interpersonale. Nessun post, neppure i più violenti, vene bloccato o cancellato dai due social networks.

I social networks sono anche degli strumenti di primaria importanza per il rafforzamento delle idee e delle convinzioni degli utilizzatori, che trovano un continuo flusso d’informazioni che corrispondono al loro modo di pensare. Molti studi di sociologia e psicosociologia mostrano chiaramente che le persone di destra ed estrema destra negli Stati Uniti (e non solo) utilizzano i social networks principalmente per questa funzione, evitando così di dover affrontare opinioni diverse.

Durante tutto il corso di questi eventi, dall’elezione del 3 novembre 2020, il canale televisivo Fox News ha sempre sostenuto la posizione di Trump e dei suoi alleati, con interviste frequenti e servizi speciali degli anchor Sean Hannity, Tucker Carlson e Laura Ingraham.

Ed ecco cosa accadde dopo l’assalto al Campidoglio

La società Dominion Voting System, una delle società i cui apparecchi furono utilizzati per il conteggio dei voti dell’elezione presidenziale del 2020 nella maggioranza degli Stati, ha fatto causa per 1,6 miliardi di dollari per diffamazione alle società di Fox controllate da Rupert Murdoch e ai tre giornalisti di destra per aver diffuso notizie false concernenti il fatto che le macchine avevano sottratto voti a Trump per trasferirli a Biden.

A metà febbraio 2023, nel corso delle audizioni davanti al gran giurì istituito per questo processo, Rupert Murdoch ammise di sapere che Trump non aveva vinto le elezioni e che Fox News aveva trasmesso notizie false. Inoltre, sono stati rivelati e-mail e messaggi sms scambiati privatamente tra Rupert Murdoch, Sean Hannity, Tucker Carlson e Laura Ingraham nei quali tutti esprimono chiaramente l’opinione che Trump menta e che l’elezione di Biden sia valida:

Queste notizie sono diventate di pubblico dominio in occasione della presentazione degli atti processuali del processo tra Dominion e Fox nel gennaio e febbraio 2023.

Nonostante questi commenti in privato (in uno dei messaggi, Tucker Carlson arrivò a scrivere “I hate Trump passionately”), Fox News ha continuato a sostenere Trump e le sue menzogne; quasi tutti i commentatori politici ritengono che il sostegno sia legato al mantenimento dell’audience, che per Fox stava diminuendo a favore di CNN e dei siti di estrema destra con l’elezione di Biden.

Un’altra società che offre lo stesso servizio di Dominion ha fatto causa a Fox per 2.7 miliardi di dollari. Questa causa è ancora in fase d’istruttoria.

Fox News è il canale più seguito dagli elettori repubblicani, specialmente dai sostenitori di Trump e, in generale, da cittadini di destra ed estrema destra; spesso è l’unico canale, poiché tra questi è assai diffusa la nozione che tutti gli altri canali televisivi, come i quotidiani più importanti, raccontino menzogne e siano incontrovertibilmente opposti a Trump.

La convinzione di essere i veri difensori della democrazia negli Stati Uniti è fermamente radicata in questi elettori.

In questo clima politico, ma anche culturale, è in atto una battaglia per il futuro della democrazia negli Stati Uniti che può essere difficile da percepire dall’esterno del paese: fanno parte del quadro la negazione sistematica della verità, dei fatti e di prove concrete; la diffusione di teorie cospiratorie; gli attacchi personali; le sempre più frequenti minacce di violenza da parte di Trump e di molti suoi alleati, soprattutto dopo la sua dichiarazione del novembre 2022 di volersi ripresentare alle elezioni presidenziale del 2024. Recentemente vi sono state anche violenze effettive, come l’attacco al marito di Nancy Pelosi nella loro casa di San Francisco.

Nelle condizioni conflittuali e d’incertezza attuali il DOJ si trova a dover svolgere un compito che non fa parte del suo mandato istituzionale: difendere la Costituzione e salvaguardare la democrazia americana.

Come vedremo nelle uscite dei prossimi giorni, gli ambiti che possono portare, indipendentemente o in combinazione tra loro, in tempi diversi o in parallelo, a uno stadio che farebbe esplodere la polveriera sono principalmente i seguenti:

  • uno politico e istituzionale federale (Parte 2)
  • uno giuridico (Parte 3)
  • uno politico e istituzionale a livello statale e locale (Parte 4)
  • uno culturale (Parte 5).