sharing economy

La politica italiana e la scarsa consapevolezza della cultura e del valore dei dati in rete

di Raffaele Barberio |

La politica dovrebbe uscire dai luoghi comuni di accettazione tout-court delle istanze delle multinazionali del web ed entrare nel dettaglio delle problematiche sul tappeto, guardando al futuro.

Ieri mattina si è svolta alla Camera dei Deputati, davanti alle Commissioni riunite dei Trasporti/Telecomunicazioni e delle Attività Produttive l’audizione di Antonello Soro, Garante della privacy, nel quadro dell’esame della Proposta di legge recante “Disciplina delle piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi e disposizioni per la promozione dell’economia della condivisione”, firmata dall’on. Veronica Tentori e sottoscritta da altri 84 parlamentari appartenenti a vari gruppi politici.

Si è trattato di un’occasione importante su un tema cruciale, quello dell’economia della condivisione, che è entrato a pieno titolo nella dinamiche del mercato e che coinvolge solo in Italia ormai milioni di persone.

L’audizione del Garante ha svelato i gravi punti di debolezza della proposta di legge in questione, che rischia di svilupparsi su una direttrice parziale, ambigua e con il concreto rischio di generare effetti collaterali, primo su tutti quello di rinnovare ancora una volta lo scarso stato di consapevolezza della politica italiana sui rischi della cattiva gestione dei dati personali.

Quanto pesa l’economia della condivisione o sharing economy? Tanto.

E’ ormai entrata nelle consuetudini di consumo, con la velocità e la capillarità tipica di tutti i servizi di rete.

In Italia nel 2015 sono state censite 186 piattaforme di sharing economy (+34% rispetto al 2014), prevalentemente centrate su crowdfunding, trasporti, servizi di scambio di beni di consumo, turismo.

E’ il caso di prevedere una apposita legge su un settore del genere?

Certamente sì.

Nelle forme attuali e con le modalità di inquadramento del problema previsto dall’attuale formulazione della proposta di legge?

Certamente no.

La Proposta di legge di Tentori àncora l’intero impianto della proposta di legge sulle dinamiche di mercato e sulle relazioni concorrenziali tra le piattaforme, che rappresentano un lato della medaglia, un lato molto importante ma parziale, riservando alle problematiche di tutela e difesa dei dati personali, che rappresentano l’altro lato della medaglia, un’attenzione del tutto inadeguata e con un semplice articolo in cui si ribadiscono obblighi e oneri che la legge sulla privacy prevede peraltro di per sé per qualsiasi attività di rete.

Ora pensare che la sharing economy possa essere ricondotta solo a dinamiche competitive non rappresenta solo un’insufficienza, perché altera l’intero impianto e il modo di valutare un intero settore.

Come ha ribadito il Garante nel suo intervento “…nella società digitale, i dati corrispondono alle nostre persone, noi siamo i nostri dati e da questa considerazione bisogna partire per ricercare forme di tutela e per valutare le iniziative volte a regolamentare fenomeni così complessi”.

Va peraltro specificato che proprio nella sharing economy la messa a disposizione del dato è un elemento importante su cui poggiano la maggior parte dei modelli di business adottati dalle piattaforme.

E allora perché la Proposta di legge Tentori non considera se non marginalmente l’altra faccia della medaglia, quella della protezione dei dati che, a differenza delle dinamiche competitive e di mercato affonda le sue radici sui principi essenziali di democrazia e di tutela della persona?

Per una ragione molto semplice.

Perché vi è una scarsa cultura della protezione dei dati personali. Un deficit che spesso impedisce ai nostri politici di guardare al di là della punta delle proprie scarpe e che in caso di scelte sbagliate li pone in una condizione di scarsa consapevolezza sui danni ingenti e in qualche caso irreversibili che si possono creare.

Vi è, più in generale, un convincimento diffuso secondo il quale l’economia digitale deve correre per essere efficace e pertanto qualsiasi vincolo possa rallentare la marcia delle grandi compagnie del web diventa un presunto attentato alla crescita. Quindi chiunque frapponga ostacoli deve essere considerato un nemico dell’economia digitale, un nemico dell’innovazione, un ostacolo alla crescita promessa dallo sviluppo delle operazioni economiche in rete.

Naturalmente si tratta di un convincimento ideologico e strumentale, che punta alla eliminazione di quelle regole e vincoli cui le grandi multinazionali devono sottostare e che sono stati approvati per limitare il loro approccio di rapina sui territori sulle quali esse operano. E l’approccio predatorio non riguarda solo il ricorso all’uso di capziosi escamotage per sottrarsi al pagamento delle tasse, ma anche ed innanzitutto proprio l’uso irregolare di dati, una merce preziosa a cui nessun gigante del web rinuncerebbe mai.

Ma ritorniamo alla proposta di legge Tentori.

In molti dei 12 articoli che la compongono, viene indicato un ruolo preciso ed importante per l’Autorità Garante della Concorrenza e il Mercato (Antitrust). Tutte le piattaforme di sharing economy, prescrive la Proposta di legge, devono iscriversi ad un apposito registro elettronico nazionale delle piattaforme digitali. Viene indicato il ruolo dell’AGCM che “…regola e vigila sull’attività delle piattaforme digitali dell’economia della condivisione”.

Si tratta di un passaggio importante e necessario perché, come indicato in altro punto della Proposta di legge, occorre sostenere la “…diffusione dell’economia della condivisione, garantendo la leale concorrenza e la tutela dei consumatori”.

Il punto è che questo insostituibile ruolo dell’AGCM copre ancora una volta una faccia della medaglia, quella dove le imprese devono farsi concorrenza leale e gli utenti sono consumatori, in una logica di mercato e di incontro tra domanda ed offerta.

Ma l’altra parte della medaglia?

Quella in cui l’utente è una persona, con il suo bagaglio enorme e prezioso di dati personali?

Viene semplicemente rimandato ad un articolo della Proposta di legge in cui si rinvia alle normative vigenti in materia di privacy ovvero alla legge 196/2003.

Ma perché non prevedere un ruolo del Garante della privacy nel controllo dell’operato di tali piattaforme?

Perché non estendere l’obbligo del registro ad un doppio deposito per le rispettive competenze presso il Garante privacy oltre che presso l’AGCM?

I dati, come si sa sono beni molto preziosi e di grande valore per il cittadino che vuole proteggerli e per le imprese che vogliono monetizzarli: due interessi tendenzialmente contrapposti. E in questa divergenza di interessi il ruolo del Garante è insostituibile.

Come ha specificato Soro nella sua audizione: “…occorre un supplemento di riflessione che, oltre ai profili di equità fiscale, la leale concorrenza e la tutela tradizionale dei consumatori, si preoccupi anche della trasparenza dei dati raccolti, delle modalità con le quali sono gestiti, dei luoghi in cui possono essere conservati, dei tempi di conservazione, delle attività di profilazione che su di essi possono essere svolte, nonché delle misure di sicurezza adottate dalle piattaforme”.

Al contrario, nella proposta di legge Tentori si fa riferimento solo alle due possibilità riconosciute all’utente di accedere ai propri dati e di cancellare gli stessi.

Nulla su ciò che di questi dati si può fare dietro le quinte.

Una deficit inammissibile.

Infine alcune considerazioni finali e per alcuni versi inquietanti.

Vi è un punto della proposta di legge Tentori in cui si fa esplicito riferimento alla necessità di “…rimuovere gli ostacoli regolatori, di carattere normativo o amministrativo, alla diffusione della economia della condivisione…”.

Che vuol dire “rimuovere gli ostacoli regolatori”?

Le lobby dei giganti multinazionali del web preme proprio per questo. Invece i vincoli regolatori servono, innanzitutto per eliminare le asimmetrie normative di cui impunemente godono proprio i giganti del web. L’affermazione “rimuovere gli ostacoli regolatori” può rivelarsi come un’affermazione grave e con conseguenze nefaste. Perché può generare precedenti pericolosi e rafforzare una errata cultura del mercato, dell’innovazione dell’economia digitale.

Regole e norme, assieme alle attività regolatorie delle Autorità di settore, servono proprio ad assicurare correttezza delle dinamiche concorrenziali di mercato e la difesa dell’utente di rete, inteso come consumatore e come persona (ancora una volta le due facce della stessa medaglia).

Infine, un’ultima battuta sul contesto normativo in cui questa proposta di legge si collocherebbe.

La sharing economy e l’internet delle cose sono, come è a tutti noto, fenomeni globali.

Pensare che l’Italia possa fare una legge su questi settori senza guardare ai framework normativi internazionali, che nella proposta di legge vengono ignorati, rischia di nascondere piccoli interessi di botteguccia nazionale di questo o quell’ispiratore della proposta di legge in oggetto.

La Comunicazione della Commissione Europea su “Un’agenda europea per l’economia collaborativa” emessa appena un mese fa, invita gli Stati membri ad evitare approcci normativi divergenti sul tema, ribadendo per le piattaforme digitali l’obbligo di conformarsi all’attuale quadro giuridico applicabile in materia di protezione dei dati e rappresentato dal nuovo regolamento n. 679 del 2016, pubblicato da Bruxelles nello scorso mese di maggio.

Il legislatore italiano faccia tesoro delle indicazioni Comunitarie, eviti di immaginare in questo modo campi d’azione nazionali per aziende la cui operatività è internazionale, si allinei alle normative europee che offrono soluzioni più forti perché territorialmente più ampie e sotto un unico cappello normativo, individui le peculiarità nazionali aggiungendo soluzioni a esigenze specifiche ben individuate piuttosto che immaginare di governare dal piccolo principato del nostro paese dinamiche di mercato e tecnologie ben più vaste che trovano la loro ragion d’essere su base globale.