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La nuova legge sul diritto d’autore? Attenzione, rischiamo di gettare il bambino con l’acqua sporca

Due giorni fa, con un sondaggio sull’account Instagram dell’Istituto per le politiche dell’innovazione, abbiamo chiesto ai nostri follower se fosse giusto che gli operatori di internet (Facebook, Google, ecc.) dovessero pagare un equo compenso agli editori, sebbene questi ultimi utilizzino, a titolo gratuito, i servizi degli stessi operatori. Sorprendentemente, i NO hanno superato i SI.

La questione riguarda, ovviamente, l’art. 15 della Direttiva copyright e il suo recepimento, in questi giorni in discussione in Italia. In particolare, i punti sul tavolo che appaiono di difficile qualificazione sono essenzialmente tre.

Il primo attiene alla nozione di “pubblicazione giornalistica”, che non è assimilabile né a quella di “stampa o stampato” di cui alla legge sulla stampa (legge 47 del 1948) né a quella di prodotto editoriale di cui alla legge 62 del 2001.

La seconda, sempre sul piano qualificatorio, riguarda l’estensione del concetto, sconosciuto alla legislazione italiana, di “estratti molto brevi”, ossia il perimetro da assegnare agli snippet, i frammenti testuali di articoli dei quotidiani ripresi dalle piattaforme. Estratti che, storicamente, non sono protetti dal diritto d’autore che, sin dalla Convenzione di Berna, ha considerato prevalenti il diritto del pubblico a essere informato sul diritto a ottenere un compenso economico dell’autore.

La risposta a questi due punti è stata completamente disattesa nelle prime leggi di recepimento, in Francia, Olanda e Ungheria, dove il legislatore ha preferito aggirare la questione e ha rimesso la soluzione in capo ai soggetti destinatari della normativa; anche su coloro, va detto, che potrebbero non rientrare nel campo di applicazione, ma che, a causa dell’incertezza della definizione legislativa, saranno costretti a negoziare con gli editori.

Il terzo dubbio riguarda la possibilità per le piattaforme di internet di non stipulare accordi con gli editori, sulla base di una procedura negoziata, così come avvenuto in Francia a seguito della trasposizione della direttiva.

Gli obiettivi, del resto, sono chiaramente esplicitati dalla Direttiva Copyright.

Da un lato, si parte dall’osservazione, invero non dimostrata e non fondata su dati empirici, che le abitudini di fruizione delle informazioni sono radicalmente cambiate e che gli operatori di internet monetizzerebbero sui contenuti creati dai giornali. Insomma, per usare le parole care agli esperti di antitrust, Facebook, Google, ecc. agirebbero da free rider, approfittando dell’accesso alle informazioni.

Il traffico degli utenti si concentrerebbe su queste piattaforme, dirigendo verso di loro gli investimenti pubblicitari che, un tempo, erano destinati all’editoria.

Date queste premesse, l’obiettivo della direttiva Copyright è stato quello di creare un nuovo diritto d’autore (nella forma di un equo compenso), riconoscendo l’obbligo per le piattaforme di corrispondere una percentuale dei propri profitti alle imprese editoriali: finanziamento che servirebbe per garantire la sostenibilità economica del mondo editoriale e ad assicurare informazioni affidabili.

Se i presupposti appaiono parzialmente corretti, forse la misura adottata rischia di essere fallace.

Innanzi tutto, si può spingere verso una negoziazione tra editori e piattaforme, con l’adozione di tabelle relative al “costo” dell’informazione, ma occorre essere consapevoli che la normativa antitrust può imporre obblighi di vendita, ma non obblighi di acquisto. In altri termini, salvo a voler modificare i principi dei Trattati dell’Unione Europea, nessuna legge può obbligare Google & Co. ad acquistare informazioni dagli editori.

In questo senso, andrebbero delimitati anche i beneficiari di queste misure, per scongiurare che di tale misura legislativa ne approfittino – in un settore, quello dell’editoria, spesso caratterizzato da fondi a pioggia privi di meccanismi premiali – i soliti “furbetti”.

Allo stesso tempo, non sussistendo un obbligo di acquisto, nulla esclude che gli operatori di internet diventino loro stessi produttori di informazioni, avendo una visibilità superiore anche alle testate più note. Né bisogna dimenticare che, fatta la legge, sarebbe facile trovare l’inganno: già con la legge spagnola, prima della direttiva comunitaria, erano nate agenzie di stampa in Sudamerica, che fornivano news sulla Spagna. Agenzie alle quali, naturalmente, non trovava applicazione la legge spagnola (così come oggi la direttiva), trattandosi di società stabilite in un contesto extraeuropeo. Lo stesso potrebbe facilmente accadere anche in Italia, con una società stabilita, ad esempio, in Canton Ticino e, quindi, fuori dal territorio dell’Unione europea.

Siamo sicuri che, in maniera forse perversa, non si vada ad incidere negativamente sull’obiettivo della direttiva Copyright di assicurare un’informazione professionalizzata e più forte?

Un discorso simile, poi, potrebbe essere fatto per gli snippet: in alcuni Paesi si sta discutendo su di un limite di parole oltre il quale troverebbe applicazione il pagamento dell’equo compenso. Potrei sbagliare, ma non mi risultano studi che dimostrino che i frequentatori dei social network, con un numero di parole minore, cliccherebbero davvero sul link per essere indirizzati verso la pagina internet del quotidiano. Siamo certi che, anche in questo caso, non si rischi di informare ancora peggio il pubblico, gettando il bambino con l’acqua sporca e determinando una maggiore confusione e un’accresciuta polarizzazione nel pubblico?

Ultimo dubbio. La legge italiana di recepimento dovrebbe distinguere gli operatori. Google non utilizza le notizie allo stesso modo di Facebook ed è da discutere se possano essere applicate, a servizi diversi, le medesime tariffe. Una differenziazione necessaria, anche per evitare che la legge – altro possibile effetto perverso – abbia quale esito quello di chiudere il mercato ai nuovi operatori della rete, alle tante startup che potrebbero essere spinte a non entrare nel mercato a causa di costi proibitivi per la riutilizzazione delle informazioni. A ben pensarci, gli unici che approfitterebbero di questa situazione sarebbero i “giganti” della rete che vedrebbero rafforzate le loro posizioni monopolistiche.

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