L’indagine sulla redditività della New Space Economy
La New Space Economy sta crescendo rapidamente e a lungo termine promette profitti elevati, ma sul breve termine la redditività delle imprese spaziali è ancora un tema complesso. Con il termine New Space Economy si intende oggi la crescente commercializzazione dell’esplorazione spaziale, a patire dai primi anni 2000, caratterizzata da un ecosistema dinamico in cui privati, startup e investitori finanziari svolgono un ruolo centrale, diversamente dal modello “tradizionale” dominato esclusivamente dagli enti governativi.
In base ai dati raccolti dalla Space Foundation, il mercato globale ha raggiunto un valore record di circa 613 miliardi di dollari nel 2024, con una crescita annua del 7,8%. Il settore commerciale ne costituisce circa il 78%, confermando il peso crescente delle imprese private rispetto ai programmi governativi.
Un settore in apparenza “ricco”, ma che richiede investimenti iniziali molto elevati, soprattutto nei settori dei lanci e delle costellazioni satellitari, che impattano sulla liquidità e sulla redditività immediata.
La New Space Economy è spesso raccontata attraverso toni trionfalistici: un mercato in piena espansione, nuove opportunità commerciali, capitali privati in crescita e un futuro dominato da costellazioni satellitari, anche “mega”, lanciatori riutilizzabili e servizi digitali dallo spazio.
Solo pochi giorni fa, con il volo del satellite Sentinel-6B, SpaceX di Elon Musk ha celebrato il 500° lancio effettuato con razzi riutilizzabili, concluso con l’atterraggio del Falcon 9 alla base LZ-4 a Lompoc, nella contea di Santa Barbara, California. Immancabile anche il commento dell’imprenditore multimiliardario: “Starship è la differenza tra essere una civiltà multiplanetaria o rimanere limitati a un solo pianeta”.
Tuttavia, quando si passa dai racconti agli indicatori economici reali, lo scenario appare decisamente diverso.
Un’indagine condotta da Eurospace – pubblicata da The Space Republic – offre una fotografia aggiornata della redditività “effettiva” delle imprese europee del settore spaziale. I risultati mettono in luce criticità profonde e strutturali, spesso ignorate nella narrativa dominante. E mostrano come, al di là dei grandi annunci, lo spazio rimanga un settore ad altissimo rischio, bassissima marginalità e dipendenza cruciale dai fondi pubblici.
Space economy settore globalmente in perdita, cosa dicono i numeri
La space economy europea, almeno per quanto riguarda lo sviluppo e la produzione di sistemi spaziali, è oggi un settore complessivamente in perdita. Nel 2024, anno per cui i dati disponibili sono ancora parziali, le 61 aziende del campione (che rappresentano circa il 70% del business spaziale europeo) hanno totalizzato 8,3 miliardi di euro di vendite nel segmento spaziale, ma hanno generato un EBIT negativo pari a 1,5 miliardi. Un segno meno così rilevante è dovuto certamente alle performance dei grandi gruppi industriali, ma non riguarda solo loro: anche le piccole e medie imprese (Pmi) mostrano un andamento complessivamente sfavorevole.
Nel 2023, soltanto 19 imprese hanno chiuso l’anno in utile; le altre 42 hanno registrato perdite, incluse tutte le 21 startup del panel. Anche restringendo l’analisi alle sole imprese più mature, il panorama non migliora: escluse le startup, 40 aziende evidenziano un tasso medio di perdita del 4,6%.
Solo quattro società presentano margini positivi superiori al 10%, mentre tredici riportano risultati negativi peggiori del –10%. Il resto si muove in un’area di bassa o nulla marginalità.
Le diversità tra le categorie d’impresa mettono ulteriormente in luce la fragilità del sistema. I grandi gruppi industriali mostrano in media un margine negativo del 4,6%, a segnalare come anche gli attori più strutturati fatichino a sostenere la redditività delle attività spaziali. Le Pmi registrano una perdita più moderata, pari all’1,3%, ma comunque lontana dalla sostenibilità economica.
Solo le aziende di taglia intermedia riescono, seppur di poco, a mantenersi in equilibrio, con un profitto medio dello 0,4%.
Sul fronte delle startup, la volatilità è estrema: molte sono in fase pre-revenue e riportano perdite annuali nell’ordine delle due o tre cifre percentuali, un andamento che conferma quanto sia difficile scalare modelli di business solidi nel settore upstream.
Come ha spiegato su Forbes Alexandra Vidyuk, CEO e General Partner di Beyond Earth Ventures: “Una startup potrebbe impiegare anni a sviluppare un sistema prima del suo primo test in orbita, e il costo di un fallimento può essere misurato in milioni“.
Nel complesso dei sei anni analizzati, il quadro è altrettanto eloquente. Le aziende del campione hanno generato ricavi cumulati pari a 56 miliardi di euro, a fronte dei quali si registrano 2,4 miliardi di perdite totali. Si tratta di un margine aggregato del –4,3%.
Eliminando dal conteggio le startup e concentrandosi esclusivamente sulle imprese consolidate, la situazione migliora leggermente, ma resta negativa: 1,5 miliardi di euro di perdite complessive, con un margine medio del –2,7%.
Al di là dei numeri assoluti, ciò che preoccupa maggiormente è il trend: i margini sono in progressiva contrazione per tutte le categorie di imprese, dai grandi gruppi ai midcap fino alle piccole e medie aziende. Le Pmi sono le più colpite: quasi ogni anno chiudono in perdita e non mostrano segnali di miglioramento nel lungo periodo, confermando la loro crescente dipendenza da contratti governativi e da cicli di commesse sempre più irregolari.
Perché lo sviluppo di sistemi spaziali non è un’attività redditizia: i fattori strutturali che pesano di più
Per spiegare un panorama così critico, Eurospace individua una serie di fattori strutturali che condizionano profondamente la redditività dell’industria spaziale europea. Il primo riguarda il rapporto con i clienti storici del settore: l’Agenzia spaziale europea (Esa) e le agenzie nazionali europee. Questi organismi operano nella logica del finanziamento pubblico, con programmi che raramente prevedono margini elevati. Le regole di funzionamento, spesso basate su contratti cost-plus o su restrizioni di budget, tendono a contenere la profittabilità dei fornitori piuttosto che premiarla.
Parallelamente, la competizione sul lato dell’offerta è cresciuta in modo significativo. L’ingresso di numerosi nuovi player, in particolare nel segmento upstream, ha ampliato la base industriale ma ha anche provocato una pressione crescente sulle aziende già consolidate. La supply chain si è allungata e si sta dimostrando più complicata, mentre il personale occupato cresce più rapidamente dei ricavi, con l’effetto inevitabile di comprimere ulteriormente i margini.
Un altro fattore determinante è il crollo del mercato dei grandi satelliti geostazionari, che per decenni ha rappresentato un pilastro della redditività europea. Si trattava di piattaforme complesse, ad alto valore aggiunto e con una domanda prevedibile. Il passaggio verso sistemi LEO (orbita terrestre bassa), caratterizzati da costellazioni numerose (con sempre nuove applicazioni) ma da singoli satelliti meno sofisticati e molto meno remunerativi, ha eroso una delle principali fonti di margine per l’industria del continente.
Infine, emerge una criticità forse meno immediata, ma altrettanto strutturale: la sottoremunerazione del valore reale dei prodotti. Secondo Eurospace, i clienti non riconoscono pienamente i costi e il valore tecnologico delle soluzioni acquistate. Il risultato è una competitività “illusoria”, basata su un prezzo che non riflette l’effettivo complesso di investimenti, rischi e capacità industriali richiesti.
Tale dinamica obbliga molte aziende a operare con margini sottilissimi o addirittura negativi, sostenute di fatto dai fondi pubblici. È un modello che consente al settore di sopravvivere, ma non di crescere in modo sostenibile.
Negli USA un contesto diverso, ma problemi simili
L’analisi della situazione negli Stati Uniti permette di capire come molte di queste dinamiche non siano peculiari dell’Europa, ma rappresentino sfide globali del settore spaziale. Negli USA l’ecosistema spaziale appare più dinamico, sostenuto da capitali privati e da grandi innovatori come SpaceX. Tuttavia, anche qui i dati raccontano una storia meno lineare di quanto sembri.
I grandi gruppi americani mostrano una dinamica in calo negli ultimi dieci anni: dai margini del 12–13% registrati nel 2014–2015 si è passati a un più modesto 8% nel 2021, fino a margini negativi, attorno al –4%, nel 2022. Anche in questo caso, un singolo attore può influenzare l’intero segmento: nel contesto statunitense, il peso di Boeing è paragonabile a quello di Airbus per l’Europa, e le sue difficoltà operative e programmatiche hanno trascinato verso il basso i risultati complessivi.
Ancora più complessa è la situazione delle pure space companies quotate al Nasdaq, molte delle quali emerse dalla stagione delle SPAC del biennio 2020–2021. Anche le aziende più promettenti, come Rocket Lab, non sono ancora riuscite a chiudere un esercizio in utile dopo quasi vent’anni di attività, nonostante ricavi in crescita oltre i 400 milioni di dollari l’anno.
Altre società, tra cui Terran Orbital, Momentus, AST Space Mobile e Planet, continuano a registrare perdite consistenti, mentre diversi ex-unicorn del settore, come Astra e Virgin Orbit, sono già falliti o stati delistati.
In questo quadro, diventa evidente come la vitalità dell’ecosistema americano dipenda in gran parte dalla domanda governativa. I principali clienti del segmento upstream sono il Dipartimento della Difesa, la NASA, NOAA e le agenzie di intelligence.
Il ruolo centrale del procurement della Difesa
La struttura del mercato americano è più orientata al procurement della Difesa rispetto a quella europea, e questo garantisce flussi economici più consistenti. Tuttavia, anche negli Stati Uniti, senza contratti pubblici il settore non avrebbe modelli di business sostenibili.
Solo per fare un esempio, secondo quanto riportato lo scorso mese dal Wall Street Journal, SpaceX sarebbe in procinto di aggiudicarsi un contratto da 2 miliardi di dollari per lo sviluppo di satelliti destinati al tracciamento di missili e velivoli nell’ambito del nuovo programma di difesa statunitense “Golden Dome”.
secondo dati diffusi dal Washington Post, dal 2016, SpaceX ha ottenuto almeno 1 miliardo di dollari all’anno in contratti e finanziamenti governativi, con cifre che sono salite tra i 2 e i 4 miliardi di dollari annui tra il 2021 e il 2024.
Alla fine, ciò che conta è ancora lo Stato
La conclusione a cui porta l’indagine Eurospace è chiara: lo spazio non è un mercato libero “puro”, né in Europa né negli Stati Uniti. La redditività, quando esiste, è resa possibile dalla presenza massiccia e costante di fondi governativi.
In Europa, Esa e le agenzie nazionali rappresentano la principale fonte di domanda e finanziano programmi il cui obiettivo non è generare profitti, ma sostenere competenze industriali, infrastrutture critiche e sovranità tecnologica. Le regole del geo-return, pensate per garantire equilibrio politico tra i Paesi membri (meccanismo che garantisce che gli investimenti dei paesi membri nell’Esa vengano restituiti loro sotto forma di contratti industriali e opportunità di sviluppo tecnologico nei loro rispettivi paesi), tendono a frammentare ulteriormente il mercato e a limitarne l’efficienza. Le startup, dal canto loro, sono quasi sempre sostenute da grant pubblici, bandi e contratti istituzionali.
Negli Stati Uniti, la struttura è diversa ma la sostanza è simile: il Dipartimento della Difesa e le agenzie federali mantengono un ruolo centrale nel finanziare tecnologie, servizi e capacità industriali, spesso con contratti molto più generosi di quelli europei. Questo crea un ecosistema più dinamico ma non necessariamente più profittevole: elimina in parte il rischio commerciale, ma rende le aziende estremamente dipendenti da decisioni politiche e strategiche.
Space Economy, una corsa capital-intensive
Il risultato, in entrambi i casi e per il momento, è che senza investimenti pubblici il settore spaziale non reggerebbe come industria autonoma. È una constatazione che contrasta con la retorica secondo cui la new space economy sarebbe trainata quasi esclusivamente dal mercato commerciale.
La stessa Eurispes, a marzo di quest’anno, ha esaminato l’ecosistema spaziale arrivando allo stesso risultato: per ora, molti investimenti hanno un orizzonte di ritorno a medio-lungo termine, non tutte le imprese riescono a generare profitti subito e il settore presenta ancora rischi elevati legati a costi di sviluppo, competizione e regolamentazione.
La New Space Economy rappresenta attualmente circa lo 0,35% del Pil mondiale. Secondo il World Economic Forum, il settore avrebbe raggiunto il valore di 1,8 trilioni di dollari entro il 2035. Le imprese sono dei provider di applicazioni innovative e servizi avanzati che vengono utilizzati sempre più nella vita quotidiana e che, si stima, entro il 2040, porteranno il settore a raggiungere un valore fra i 1.000 e i 2.700 miliardi di dollari.
Lo spazio è e sarà sempre più un settore strategico, visionario e tecnologicamente avanzato, ma non è ancora un settore ad alta redditività. È una corsa difficile, capital-intensive, con margini stretti e un’elevata volatilità. Ma dal punto di vista geopolitico è imprescindibile e la supremazia in quest’ambito diventa un fattore centrale per la crescita economica, la sicurezza nazionale, il potere e l’influenza globale.
