Key4biz

La ‘musica di sottofondo’ nei pubblici esercizi riaccende lo scontro tra Siae e Soundreef

Un nuovo piccolo “Far West”, in una landa minore del tessuto culturale italiano…

La questione della “musica di sottofondo” – un business da alcune decine di milioni di euro l’anno – merita senza dubbio attenzione, sulle colonne di una rubrica dedicata alla politica culturale ed all’economia mediale, qual è “ilprincipenudo”, curata dall’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult per un quotidiano specializzato sull’economia digitale e la cultura del futuro, come si autodefinisce “Key4biz”.

Eppure la querelle che si è scatenata nelle settimane scorse è rimasta finora circoscritta all’attenzione di una testata specializzata, assai ben curata, qual è “Dday” (che sta per “Digital Day”), “il quotidiano dell’hi-tech” diretto da Gianfranco Giardina.

La testata specializzata è stata la prima a segnalare che dal 1° luglio 2022 ci sarebbe stato un cambiamento nelle modalità di utilizzazione della “musica di sottofondo” negli esercizi commerciali.

Fino al 30 giugno i negozi, gli alberghi e i locali che hanno riprodotto musica di sottofondo (detta anche “background music”) per rendere più piacevole il processo di acquisto o la permanenza (esistono consolidati studi che correlano la musica d’ambiente ai comportamenti dei consumatori), hanno pagato una tariffa alla Società Italiana Autori Editori (Siae), una somma variabile a seconda dei metri quadri del locale. Questo per i “diritti connessi” alla musica che viene fatta ascoltare, diritti che vengono poi ridistribuiti agli autori.

Non si tratta di cifre impressionanti: indicativamente, un locale di 250 metri quadrati pagava circa 500 euro all’anno, ma la cifra cresce per le grandi superfici ed i supermercati ed i grandi centri commerciali dove le metrature sono ben maggiori.

Le radici storiche dello scontro tra Siae e Soundreef

Come è noto, a seguito di un tortuoso processo di liberalizzazione del mercato del diritto d’autore, da alcuni anni non esiste più un “monopolio” della storica Siae (fondata nel lontano 1882), ma sono emersi nuovi operatori, e, tra questi, la società britannica Soundreef, fondata nel 2011 dall’italiano Davide D’Atri (attiva nel nostro Paese dal 2014, ma sviluppatasi soprattutto a partire dal 2017).

Dopo anni di scontri piuttosto duri (battaglie sui media, azioni legali, finanche iniziative spionistiche…) nell’aprile di tre anni fa i due contendenti addivenirono ad un accordo: Dedicammo attenzione alla pacificazione: si rimanda all’articolo di “Key4biz” del 12 aprile 2019, “Siae-Soundreef, lo storico accordo cambierà l’economia del diritto d’autore in Italia?”.

Questo in sintesi l’accordo dell’aprile 2019, che partiva dalla condivisione di un insieme di principi come:

Per quanto riguarda la “musica d’ambiente”, grazie ad un ad un accordo tra Siae e SoundReef / Lea in questi anni il pagamento della quota a Siae includeva anche una quota parte per retribuire gli autori che fanno parte della scuderia Soundreef (circa 25mila in Italia, a fronte degli oltre 100mila di Siae).

Ciò fino al 30 giugno 2022.

La Siae ha comunicato che dal 1° luglio 2022 il pagamento della quota per la licenza di riproduzione della musica di sottofondo nei locali pubblici a Siae copre solo ed esclusivamente i suoi autori. I diritti per gli autori di Soundreef vanno pagati a Soundreef, e questo vuol dire che per gli esercenti il rischio di pagare “doppio” è concreto.

La farfalla (Soundreef) ed il gigante (Siae)

Cerchiamo di fare chiarezza, a livello “macro” ed a livello “micro”.

Nel nostro succitato intervento dell’aprile 2019 su “Key4biz”, paragonavamo in metafora Siae e Soundreef rispettivamente ad un “gigante” ed a una “farfalla”: scrivevamo “non vogliamo qui entrare nel merito della “sproporzione” di attenzione con cui i media italiani hanno prevalentemente trattato il “caso” Soundreef, come se questa piccola “start-up” incarnasse i panni di un Robin Hood nei confronti della troppo ricca Siae (spesso accusata con una logica in stile “Roma ladrona”). Stiamo trattando infatti del rapporto di un gigante (Siae) con una farfalla (Soundreef), e certamente non è la quantità di artisti rappresentati l’indicatore adeguato a comprendere le dimensioni dell’una o dell’altra: Siae ha oltre 90mila associati, a fronte dei 14mila associati vantati da Soundreef, ma basta osservare il totale di proventi dell’una e dell’altra, per comprendere le proporzioni. Il fatturato Soundreef è stato di 4,2 milioni di euro nel 2017 (il consuntivo 2018 dovrebbe essere a quota 6 milioni). Il fatturato Siae, ovvero il totale degli incassi (repertorio e copia privata) è stato di 701,9 milioni di euro nel 2017 (ed il consuntivo 2018 dovrebbe essere a quota 694 milioni). Un rapporto di 1 a 167, a favore della Siae”.

Lo scontro tra la storica Siae e la emergente Soundreef ha prodotto nel corso degli anni schieramenti – ideologici e lobbistici e finanche partitici – piuttosto contrapposti. Uno scontro tra “vecchio” e “nuovo”, tra “conservatori” ed “innovatori”, ma spesso confondendo le caratteristiche dell’uno e dell’altro.

In occasione dello scontro iniziale, il quotidiano “Dday” ha assunto una posizione molto critica nei confronti della Siae e piuttosto simpatizzante nei confronti di Soundreef.

Chi redige queste noterelle è stato da sempre convinto che la tanto decantata “liberalizzazione” avrebbe potuto produrre effetti controproducenti, ovvero si correva il rischio che il venir meno di un soggetto unico, forte, potesse indebolire la rappresentazione degli interessi delle industrie culturali e creative.

Il processo è parte del radicale mutamento di paradigma provocato dalla “rivoluzione digitale”. Come abbiamo cercato di spiegare più volte (anche su queste colonne) la tanto decantata “disintermediazione” del web produce, nella nuova economia delle industrie culturali e creative, risultati non propriamente miracolistici. Se è vero che si allarga – anzi si estende all’infinito – il potenziale di accesso alla conoscenza, un sistema “disintermediato” finisce per favorire soprattutto i nuovi “poteri forti”, ovvero dei soliti GoogleFacebookApple

Nessuno ha studiato con adeguata attenzione (per quanto ci risulta) le conseguenze della “rivoluzione digitale” nell’economia del lavoro creativo e culturale: sulla base di nostre ricerche e valutazioni, l’intera “classe intellettuale” sta andando incontro a processi di continua e strisciante depauperizzazione, in questa nuova fase del capitalismo. E quella dell’ennesima declinazione della “disintermediazione assoluta”, rappresentata dalla “blockchain”, è verosimilmente l’ennesima… grande illusione.

Frammentare i soggetti che – nel bene e nel male – tutelano gli autori nei confronti dei nuovi “padroni dell’immaginario” finisce paradossalmente per fare il gioco dei capitalisti del digitale.

In taluni casi, “liberalizzare” è soltanto uno slogan ideologico, allorquando uno Stato lungimirante non può e non deve affidare soltanto al mercato settori delicati e strategici come il sistema culturale (e – al suo interno – la cura del diritto d’autore).

A fronte di queste premesse di scenario, non abbiamo mai visto in Soundreef l’incarnazione di un soggetto benefico “a priori” per la complessiva economia della creatività, soprattutto in una prospettiva di medio-lungo periodo…

Passando dal livello “macro” a quello “micro”, cerchiamo di capire cosa accade in materia di “musica d’ambiente”.

Suscita stupore che, a distanza di anni, anche una testata che parteggiava per una parte (Soundreef) abbia quasi invertito la rotta…

Purtroppo limitata finora alle colonne di “Dday”, va apprezzato come la testata diretta da Giardina abbia reso di pubblico dominio una querelle che era rimasta fino a poche settimane fa sostanzialmente chiusa nei conversari degli operatori del settore.

Le 4 opzioni per alberghi, ristoranti, supermercati, centri commerciali…

Scriveva il 30 giugno scorso Roberto Pezzali su “Dday”, dal 1° luglio emergono 4 opzioni: (1.) continuare a diffondere musica senza controllare di quale repertorio faccia parte (Siae o Lea), ma ovviamente rischiando una multa; (2.) controllare scrupolosamente ciò che si diffonde, valutando se pagare Siae o Lea, in base ai propri orientamenti; (3.) non pagare affatto, ed affidarsi a cataloghi di musica “royalty free”; (4.) affidarsi ad uno dei servizi che generano musica di sottofondo, basandosi sul “machine learning”, anche se non sono ancora così diffusi.

Per quanto riguarda l’opzione “controllare scrupolosamente ciò che si diffonde” è impensabile che un locale possa decidere di selezionare o rendicontare la musica che viene fatta ascoltare nel suo esercizio: chi è sintonizzato su una stazione radio non può certo correre a cambiare emittente se viene trasmesso il tormentone estivo di Fedez, visto che Fedez è Soundreef e il negozio ha pagato solo Siae

Sono insorte le categorie degli “esercenti”, da Confcommercio a Federalberghi.

In particolare, Davide Rossi, Direttore Generale di Aires (l’associazione che tutela i negozi specializzati in elettronica di consumo), lamenta che le tariffe non sono cambiate: Siae non ha ridotto le quote ora che non ha più il catalogo di Soundreef e secondo Rossi la somma delle tariffe Siae e Lea non può essere superiore alle tariffe fino ad oggi praticate dalla sola Siae (con mandato di Soundreef/Lea).

Tariffe che vengono decise in modo “monopolistico” ovvero “duopolistico” dalle società, e non da una parte terza neutrale.

“Dday” ha dato ampio ed equilibrato spazio sia alla Siae sia a Soundreef, intervistando sia il Direttore Generale (fino al dicembre 2022) della Società Italiana degli Autori e degli Editori Gaetano Blandini sia il dominus di Soundreef Davide D’Atri.

Cosa è successo nei giorni seguenti?

Sono insorte le categorie degli “esercenti”, da Confcommercio a Federalberghi

Il dossier nelle mani di Agcom e Ministero della Cultura

Il dossier è nelle mani dell’Autorità Garante delle Comunicazioni (che è l’“authority” che vigila sul mercato delle “Collecting”) e del Ministero della Cultura, ma, nel mentre, Gaetano Blandini ha polemizzato con D’Atri, dato che il manager di Soundreef ha sostenuto a chiare lettere “a chi non sta bene, spenga…” cioè non utilizzi il repertorio Soundreef: “quello che lascia perplessi è il silenzio di Davide D’Atri – ha commentato Blandini – veramente surreale. L’uomo che ha fatto del mercato e della libera concorrenza il suo mantra… ora ha paura del confronto?”.

È intervenuto nella polemica anche Massimo Benini, Presidente di Evolution Collecting, il quale ha ricordato come debba essere approfondito il tema della reale rappresentatività di mercato delle “Collecting” non solo di “Diritto d’Autore” (ove lo scenario è al momento limitato a 2 soli attori: Siae e Lea), ma anche e soprattutto di “Diritto Connesso”, dove – soltanto in campo audio – sono ben 7 le “Collecting” che rappresentano sia i produttori fonografici che gli artisti interpreti esecutori.

A seguito dell’approvazione della legge sulla liberalizzazione del mercato della raccolta dei diritti d’autore, in Italia, nel settore musicale, le società di “Collecting” sono ufficialmente queste, a parte Siae (diritto d’autore ed Editore): Afi – Associazione Fonografici Italiani (diritti connessi “Produttori”); Audiocoop (diritti connessi “Produttori”); Evolution (diritti connessi “Produttori”); Get Sound (diritti connessi “Produttori” ed Aie); Itsright (diritti connessi “Produttori e Aie); Lea – Liberi Editori e Autori (diritto d’autore e Editore);  Nuovo Imaie (diritti connessi Aie); Scf (diritti connessi Produttori)… Uno scenario variegato, e complesso, e complicato nei suoi intrecci.

Serve un soggetto super-partes, un arbitro imparziale

Blandini ha proposto, e Benini si è dichiarato d’accordo, che la querelle venga affrontata da un soggetto super-partes, ovvero da una sorta di arbitro imparziale, per raggiungere un risultato equo e corretto per gli utilizzi di musica che contemplano anche il Diritto Connesso, sarebbe necessario incaricare un soggetto terzo, che sappia valutare il peso specifico di ciascuna “Collecting” sul mercato di riferimento, in modo che l’utilizzatore possa così pagare correttamente quanto dovuto, senza il rischio di andare oltre quanto corrisposto fino ad oggi, vanificando gli effetti positivi (a parere di Benini) della liberalizzazione del settore…

Di fatto, la liberalizzazione della gestione collettiva dei diritti, pensata come una possibilità di scelta per gli aventi diritto, sta determinando un imprevisto aumento dei costi, a parità di opere musicali complessive utilizzate, per gli utilizzatori. Questa liberalizzazione ha prodotto forse vantaggi per l’industria culturale e creativa, ma sta provocando per gli utilizzatori (alberghi, ristoranti, negozi…) un aumento dei costi e dei processi di verifica e regolarizzazione dei repertori.

Questa piccola vicenda è comunque sintomatica del deficit di trasparenza che caratterizza il mercato del diritto d’autore così come delle carenze di efficienza. E non vogliamo qui aprire il dossier della “copia privata”, che è ancora avvolto in molti misteri, nonostante la luce che ha cercato di fare, chiudendo l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Agcm) il 25 dicembre 2021, l’istruttoria I853, col provvedimento n. 29916, in materia di intese e abuso di posizione dominante, “Raccolta diritti di copia privata nel settore audiovisivo”. Si ricordi che, secondo gli ultimi dati disponibili pubblicamente (anno 2019), i mercati relativi alla gestione del “compenso copia privata”, comprensivi sia del settore audio che video, rappresentano un valore di circa 130 milioni di euro annui (di cui un 60 % è riconducibile al settore audio e il restante 40 % al settore video, ovvero rispettivamente circa 78 e 52 milioni di euro). Nel settore video, il “compenso copia privata” destinato ai produttori è di fatto gestito interamente da Siae e dalle 3 associazioni Anica, Apa (ex Apt) ed Univideo, sia per i produttori iscritti alla rispettiva associazione di riferimento sia per quelli non iscritti… Ma questo è un altro discorso, che affronteremo presto su queste colonne.

Anche in materia di “musica di sottofondo”, si sente l’esigenza di uno studio di scenario e di analisi di settore che siano accurate ed indipendenti.

Questa piccola vicenda evidenzia come talvolta la battaglia per la liberalizzazione possa determinare effetti controproducenti e talvolta paradossali.

È pur vero che, al di là delle visioni partigiane dei vari “player” in gioco, riteniamo che il Governo e l’Autorità debbano essere guidati da un principio-base: è necessario, anzi indispensabile, continuare ad alimentare la linfa vitale della creatività italiana. Anche al costo di determinare un qualche sacrificio da parte di albergatori, ristoratori, supermercati, centri commerciali ed altri mercanti.

Torneremo presto su questa vicenda.

Per ora, prevale confusione e… Far West.

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