Negli ultimi anni, andare al museo è diventato qualcosa di diverso da prima. Non tanto – o non solo – perché si prenota tutto online, si scarica l’audioguida su smartphone, si entra mostrando un QR code. La vera trasformazione è più profonda, e in parte invisibile: riguarda il modo in cui i luoghi della cultura si raccontano, raccolgono dati, costruiscono percorsi e relazioni digitali.
I dispositivi si moltiplicano (visori, totem, app, touchscreen) ma è nel dietro le quinte che sta avvenendo il cambiamento decisivo. Database che crescono, metadati che si riorganizzano, strumenti di intelligenza artificiale che iniziano a interagire con il patrimonio culturale, suggerendo connessioni e adattandosi al visitatore.
Tutto questo accade in silenzio,, ma non è un dettaglio: è una rivoluzione lenta, che non si limita a “portare il digitale nei musei”, ma trasforma la cultura in un sistema vivo, tracciabile, misurabile. E per chi osserva il settore da fuori, un segnale chiaro è arrivato proprio dai numeri: nel 2024, in Italia, crescono sia i visitatori che i ricavi. Succede nei musei, nei teatri, nei luoghi archeologici.
Ma succede soprattutto dove si è investito con criterio nella trasformazione digitale, non come decorazione, ma come infrastruttura di senso. In un Paese abituato a ragionare per emergenze e restauri, è forse la prima vera occasione per costruire un’innovazione culturale stabile e orientata al pubblico.
Digitalizzare non basta: serve una strategia
Secondo l’Osservatorio Innovazione Digitale per la Cultura del Politecnico di Milano, nel 2024 il 55% dei musei italiani ha investito in tecnologie digitali, così come il 41% dei teatri. È un dato significativo, ma non ancora risolutivo.
Solo il 20% delle istituzioni museali offre esperienze immersive in realtà aumentata o virtuale, e appena l’1% ha avviato progetti strutturati di intelligenza artificiale generativa. In altre parole, la cultura digitale è presente, ma raramente profonda.
Gli strumenti più diffusi sono quelli di primo livello: QR code (presenti nel 40% dei musei), app, audioguide mobili, schermi interattivi. Le esperienze realmente trasformative restano una minoranza. Eppure, i numeri premiano chi ha investito: i musei digitalizzati registrano mediamente più ingressi, più incassi e maggiore soddisfazione del pubblico.
A fare la differenza non è la tecnologia in sé, ma la sua integrazione consapevole nella proposta culturale. Come avviene in altri ambiti, dalla mobilità ai servizi, il vantaggio arriva quando si riesce a interpretare i dati e costruire soluzioni su misura.
È il principio che muove anche i comparatori di SOStariffe.it, capaci di leggere i comportamenti degli utenti per orientare le scelte verso l’offerta di telefonia mobile più adatta per accedere ai contenuti digitali. Un approccio che potrebbe diventare essenziale anche nel settore culturale, oggi più che mai chiamato a decidere cosa fare con le informazioni che raccoglie.
I dati ci sono e bisogna farli parlare
La vera ricchezza digitale dei musei non è (solo) nei visori o nei touchscreen, ma nei dati che già possiedono: cataloghi, archivi, metadati, inventari, immagini, documenti interni, flussi di visita, contenuti educativi. Ogni istituzione custodisce una quantità immensa di informazioni, spesso raccolte nel tempo con strumenti diversi, da reparti diversi, per finalità diverse.
Il risultato è che, oggi, i dati non sono standardizzati, raramente interoperabili, e quasi mai accessibili a un’intelligenza artificiale capace di valorizzarli in modo trasversale. Come ha osservato The Conversation in un’analisi recente, “non è l’assenza di dati il problema, ma la loro frammentazione”.
Alcuni musei usano terminologie scientifiche, altri descrizioni narrative; alcuni archiviano per datazione, altri per provenienza, altri ancora per valore assicurativo. Mancano strutture condivise, formati comuni, vocabolari controllati.
E senza una lingua comune, anche la migliore IA finisce per lavorare alla cieca. Eppure, il potenziale è enorme: chatbot intelligenti che rispondono alle domande dei visitatori, percorsi generati in tempo reale, ricerche semantiche nei cataloghi, strumenti per la conservazione predittiva.
Tutto questo è tecnicamente possibile. Ma per passare dal laboratorio al museo reale, serve una governance dei dati culturali, e serve adesso.
Così come è accaduto per altri settori, dalle telecomunicazioni al credito, l’efficacia arriva solo quando i dati parlano la stessa lingua, e servono scelte condivise per farlo accadere.
Il pubblico c’è, ma non è tutto uguale
Se l’innovazione digitale vuole funzionare davvero, deve partire non dalla tecnologia, ma dalle persone: e le persone che visitano i musei, partecipano a uno spettacolo o esplorano un sito archeologico non sono tutte uguali. Cambiano le età, i livelli di istruzione, la familiarità con il digitale, le abitudini di accesso e le aspettative.
L’Osservatorio ha registrato che il 72% dei musei offre almeno un servizio digitale durante la visita, ma solo una minoranza lo personalizza in base al tipo di visitatore. Le audioguide sono usate dal 29% del pubblico, le app mobili dal 16%, mentre le esperienze immersive coinvolgono appena il 10%.
Eppure, la domanda esiste: il 40% dei visitatori si informa online prima di una visita, e il 36% utilizza siti ufficiali e newsletter per orientarsi. Il problema non è la mancanza di utenti digitali, ma la difficoltà a leggere i loro comportamenti in modo segmentato e mirato.
I servizi più efficaci sono quelli che sanno intercettare i bisogni reali e restituire scelte su misura. Per la cultura, imitare questi modelli non significa banalizzarsi, ma imparare a conoscere meglio chi varca una soglia fisica o digitale. Senza ascolto, anche la migliore tecnologia resta un monologo.
Una transizione culturale, non solo digitale
Quello che sta accadendo nel sistema culturale italiano somiglia più a una transizione complessa che a un semplice aggiornamento tecnologico.
Gli strumenti ci sono, le sperimentazioni non mancano e il pubblico risponde con interesse; ma manca ancora una visione d’insieme, capace di connettere istituzioni diverse, professionalità nuove e strumenti di governance stabili.
Servono investimenti, certo, ma soprattutto servono standard, formazione, interoperabilità, perché il vero salto non si gioca su un Oculus (o simili) in più o un’app ben fatta, ma sulla possibilità che l’intero ecosistema culturale possa crescere come rete.
In questo senso, la digitalizzazione non deve essere trattata come un progetto a parte, affidato a un singolo reparto o a fondi estemporanei, ma come una funzione strutturale, trasversale, parte integrante della missione pubblica.
L’intelligenza artificiale può aiutare, ma da sola non basta: senza dati ben organizzati, condivisi e accessibili, non ci sarà innovazione sostenibile.
E in un Paese come l’Italia, dove il patrimonio è tanto capillare quanto frammentato, non possiamo permetterci una cultura digitale a macchia di leopardo.