il commento

Israele e Palestina, il confronto-scontro tra cultura e religione

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La mia mente non riesce proprio a cogliere i termini del problema: due popoli, separati da una diversa religione, ma con tante cose in comune, prima di tutte quelle di essere nati sotto lo stesso cielo, e di aver tanto sofferto, non riescono a trovare un accordo che consenta loro di vivere pacificamente.

L’annosa guerra tra israeliani e palestinesi ha accompagnato si può dire gran parte della mia vita visto che dagli anni ’60, cioè da quando ho iniziato a vedere la televisione, periodicamente, quei territori si infiammavano  e riempivano di foto e reportage desolanti i telegiornali che a casa mia venivano seguiti con religiosa attenzione. 

Io, che sono sempre stata molto colpita da tutti gli episodi di odio nei confronti di persone inermi che hanno insanguinato la nostra storia recente, ho cercato, nel mio piccolo, di contrastare ogni forma di violenza e mi sono impegnata, anche nel corso della mia attività professionale, a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sui passati eccidi, da quello tremendo della Shoà, a tutti quei massacri e genocidi avvenuti in tante, troppe parti della Terra, dall’Armenia ai Balcani, dal Darfur alle Foibe, dalla Cambogia all’ Himalaja, per alimentare il ricordo, l’impegno etico, e la partecipazione sociale, con una convinzione ed una passione per alcuni stupefacente.

Ricordo ancora che, in occasione del Giorno della Memoria del 2000 (era stata appena approvata la legge che la istituiva), le manifestazioni che organizzai a Bari, con il coinvolgimento di tutta la provincia, meravigliarono tanto alcuni notabili che mi fu chiesto se tanto fervore fosse dettato da mie origini ebraiche, ed il buon Alex Viesel, cugino del più noto Elie, Premio Nobel per la pace nel 1986, mi iscrisse ad honorem nell’associazione Italia – Israele che aveva fondato!    

Eppure la questione israelo- palestinese ha rappresentato per me sempre un rebus. 

La mia mente non riesce proprio a cogliere i termini del problema: due popoli, separati da una diversa religione, ma con tante cose in comune, prima di tutte quelle di essere nati sotto lo stesso cielo, e di aver tanto sofferto, non riescono a trovare un accordo che consenta loro di vivere pacificamente, di prosperare, di veder crescere felici i propri figli! 

Non riesco proprio ad accettare che in nome di una religione che dovrebbe servire a migliorare la natura umana, ad elevarla e ad infondere amore e armonia, si possa arrivare a tanta violenza. 

Mi piacerebbe sentire dalle donne israeliane e palestinesi se non sono stanche di vedere morire i loro figli e se questa guerra infinita ha per loro un senso e vorrei che tutte insieme decidessero di ribellarsi e di far valere le ragioni dell’amore, della vita, del rispetto e, novelle Lisistrate, costringano gli uomini a cambiare atteggiamento e a fare la pace. 

Forse sono una sognatrice, ma se una cosa del genere è stata pensata più di 2500 anni fa, dalla mente sia pure geniale di Aristofane, perché non potrebbe avvenire oggi nel terzo millennio?   

Peraltro la pandemia avrebbe dovuto insegnarci qualcosa: quanto siamo precari su questa terra, come possiamo essere messi sotto scacco da un essere infinitesimale, quanto sia importante la cooperazione per sopravvivere, quanto sia indispensabile salvarsi tutti ed aiutarsi reciprocamente.

Niente!

È bastato che ci sentissimo un pelino sollevati dai buoni esiti delle vaccinazioni, perché ovunque si riprendesse con il solito teatrino a volte tragico, come in questo caso, a volte comico, come nel caso delle diatribe nostrane, quasi sempre inopportuno. 

Credo che quell’Essere lassù, in cui un po’ tutti crediamo, si chiami Dio, o Allah o Īśvara o Buddha, sia abbastanza infastidito da questi uomini così stupidi da non comprendere i segnali che manda loro. 

Mi sono, quindi, tenuta sempre un po’ distante dalle vicende del Medio Oriente.

Lunedì scorso, però, c’è stato un articolo sul quotidiano “Sul Corriere della Sera” di Ernesto Galli della Loggia, storico e giornalista che ammiro, che mi ha fatto molto riflettere e che ha sollevato una questione destinata a far discutere.

Galli della Loggia prende spunto da un articolo apparso domenica su “Il Fatto Quotidiano”, scritto da Gad Lerner, altro grande giornalista, che riferiva sulle manifestazioni a favore dei palestinesi svoltesi da noi nei giorni scorsi, in cui immigrati di seconda generazione manifestavano con atteggiamento chiaramente antisemita, soprattutto per il linguaggio usato, del tutto dimentichi della Shoà e del dramma vissuto dagli ebrei .

Giovani nati in Italia, quindi, che hanno frequentato le nostre scuole e che di fronte alle “ingiuste” sofferenze del popolo palestinese reagiscono come i loro padri e i loro nonni, cresciuti sulla striscia di Gaza. 

Questo episodio, secondo Galli della Loggia dimostra da una parte come la cultura sia sempre recessiva di fronte al richiamo del sangue e della religione e dall’altra di come si debba riflettere attentamente sull’ipotesi di estendere sulla base dell’ “ius cultura” la cittadinanza italiana.

Il breve articolo credo abbia gelato un bel po’ di gente, in ambito progressista, ed avrà fatto gongolare di piacere molti conservatori. 

Ma, cercando, invece, di superare la solita logica delle appartenenze politiche, gli articoli di entrambi i giornalisti mi hanno fatto riflettere su uno dei miei chiodi fissi da Prefetto, soprattutto a Cagliari: il problema dell’integrazione.

Nel 2016 a Cagliari ero impegnata, pressocché ogni settimana, a distribuire in tutta la regione e a trovare una sistemazione a centinaia di immigrati che sbarcavano sul porto dalle navi delle Ong: ero presente anche io insieme agli operatori delle forze dell’ordine, dell’esercito, degli enti locali e sanitari, della CRI quando scendevano dalle navi stanchi ma felici di avercela fatta.

Io cercavo freneticamente di organizzare la logistica per dare accoglienza agli immigrati, coinvolgendo comuni, associazioni, e abitanti, suscitando peraltro da destra (ed in parte lo avevo messo in conto) ma anche da qualche sindaco di sinistra, poco propenso ad impegnare per gli stranieri  le risorse comunali, critiche feroci che portarono a  pesanti intimidazioni, come l’incendio al centro di accoglienza da me ristrutturato e l’invio di proiettili e di una lettera minatoria nei miei confronti.

Ma, nello stesso tempo, cercavo di stimolare gli ambienti culturalmente più aperti ad aprire un confronto sui percorsi di integrazione, per coinvolgere la popolazione non solo per una mera assistenza materiale ma per supportare le istituzioni nella costruzione di una società aperta al contributo di tutti, insomma su come davvero far diventare una criticità una opportunità per il nostro Paese.

Invece tutto quello che si faceva ( che era comunque già tanto ) era vestire e sfamare gli immigrati, affidando ad altri ( chi? come?) il compito di fare altro. 

Non c’è chi non veda quanto la popolazione italiana stia invecchiando e come i giovani e forti ragazzi che vengono da noi pieni di voglia di migliorarsi (perché altrimenti rischierebbero la vita nella traversata?) potrebbero essere una vera risorsa. 

Ma l’integrazione è un processo lungo, delicato e faticoso che va attentamente diretto e supervisionato dallo Stato, che deve coinvolgerci tutti, senza illudersi che la scuola da sola possa farlo, e che non si può lasciare all’improvvisazione o alla buona volontà di qualcuno, perché il rischio è che si faccia poco e male ( il povero comune di Riace docet!) 

L’alternativa è il mero assistenzialismo, la chiusura ideologica, la contrapposizione culturale e magari vedere un giorno per strada il compagno di classe di tuo figlio, quello con cui ha fatto la tesina sul nazismo, gridare in arabo “yahoud kalabna”, “gli ebrei sono i nostri cani”.