Legge di stabilità

Intervento di Monsignor Galantino (Cei): ‘Immigrazione: un’opportunità sociale, non solo economica’

di Nunzio Galantino, Segretario generale CEI Vescovo emerito di Cassano all’Jonio |

In esclusiva l’intervento del Segretario Generale della Cei Monsignor Nunzio Galantino in occasione della Giornata Internazionale del Migrante

Siamo lieti di ospitare in esclusiva la relazione integrale che Monsignor Galantino ha presentato in occasione della Giornata Internazionale del Migrante, il 18 dicembre alla Camera dei Deputati.

Una osservazione prima di entrare nel merito del tema del nostro incontro.

Legge di Stabilità. I giovani immigrati extracomunitari non avranno la “carta cultura” da 500 euro.

Compi 18 anni? Lo Stato ti regala 500 euro per comprare libri, andare al cinema, visitare un museo o comunque per fare qualcosa che arricchisca la tua cultura. Se però sei straniero, perché magari hai avuto in sorte di essere figlio di immigrati, niente regalo.

La “card cultura giovani”  lanciata dal governo taglia fuori le seconde generazioni.

Matteo Renzi l’aveva presentata come “il benvenuto nella comunità dei maggiorenni, ma soprattutto il modo con cui lo Stato ti carica della responsabilità di essere protagonista e co-erede del più grande patrimonio culturale del mondo”. A leggere però l’emendamento con cui il suo governo l’ha inserita nella legge di stabilità, ci si accorge che quel benvenuto non è per tutti.

Il testo già approvato in Commissione Bilancio alla Camera riserva la carta elettronica da 500 euro “a tutti i cittadini italiani o di altri Paesi membri dell’Unione europea residenti nel territorio nazionale, i quali compiono i diciotto anni di età nell’anno 2016”.  Ragazze e ragazzi extracomunitari, compresi quelli cresciuti e magari anche nati in Italia, non potranno averla.

Perché? Il “più grande patrimonio culturale del mondo” non riempie anche gli occhi, le menti e i cuori dei figli degli immigrati? Tra l’altro, per legge il governo avrebbe dovuto estendere il trattamento previsto per italiani e comunitari almeno ai cittadini extracomunitari titolari di un permesso Ue per lungosoggiornanti, la cosiddetta carta di soggiorno. Invece, niente.

C’è comunque ancora un po’ di tempo per rimediare. La legge di stabilità sarà domani in Aula alla Camera dei Deputati. Basterebbe un piccolo emendamento per cancellare una grande ingiustizia.

Migranti, attori di sviluppo

E’ interessante che il tema di questo seminario, ‘Immigrazione come opportunità economica’, cada in occasione della Giornata Internazionale del migrante, istituita dall’ONU nel 1990, a partire dalla adozione della Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori. E’ un tema centrale, infatti coniugare immigrazione ed economia, ma nel rispetto dei diritti dei lavoratori e delle loro famiglie.

Anche il XXIV Rapporto Immigrazione di Caritas Italiana e Fondazione Migrantes, organismi della CEI, presentato in Expo a giugno scorso e che ha letto il nostro Paese a partire dagli oltre 5.000.000 di immigrati oggi presenti, di 196 nazionalità diverse, di cui quasi 2 milioni e trecentomila lavoratori, ha scelto un tema emblematico che molto si addice alla giornata odierna: Migranti, attori di sviluppo.

Come oggi, nell’ultimo Rapporto Caritas e Migrantes si è voluto guardare il migrante come persona attiva e propositiva in grado di dare e contribuire allo sviluppo del Paese di arrivo.

Il più delle volte si sente parlare e si descrivono i migranti come “quelli che chiedono”, “gente a cui dare”, poiché “in stato di bisogno”. Dall’esperienza maturata in tanti anni di servizio, la Chiesa Italiana attraverso Caritas e Migrantes invita a invertire la prospettiva raccontando quanto invece l’Italia e gli italiani ricevono dai migranti che hanno scelto o continuano a scegliere il territorio italiano come meta di emigrazione; descrivere i volti delle persone che si incontrano, dei nuovi cittadini che, pur non essendo italiani, contribuiscono attivamente a sostenere l’Italia ancora in difficoltà economiche e culturali.

La storia dell’immigrazione italiana è caratterizzata da una continua e costante interpretazione negativa ed emergenziale del fenomeno, come a rifiutare gli ultimi quaranta anni di storia nazionale che è stata scritta inevitabilmente insieme ai migranti, divenuti ormai parte integrante e strutturale dei territori, demograficamente attiva, economicamente produttiva, culturalmente attiva, e religiosamente significativa, indispensabile al futuro di un Paese altrimenti destinato a spegnersi inesorabilmente.

A questo proposito, i dati drammatici di aumento di decessi in Italia (+ 60.000 nell’ultimo anno) segnalati dal prof. Blangiardo in un editoriale recente di Avvenire (11 dicembre 2016), ricordando che numeri simili, si ritrovano nella storia del nostro paese solo  negli anni della prima e della seconda guerra mondiale, indicano che non si può parlare di ‘sviluppo’, crescita senza guardare anche alla componente demografica nel nostro Paese, oggi sottovalutata solo alla luce dell’aumento dell’immigrazione e delle nascite nelle famiglie di immigrati.

Alla luce del XXIV Rapporto immigrazione di Caritas e Migrantes farò alcuni approfondimenti che incrociano i dati della Commissione bilancio e sostengono anche la volontà di leggere la recente storia economica dell’immigrazione nel nostro Paese, come storia di sviluppo, di crescita.

 

Il fattore positivo delle migrazioni

 

L’immigrazione economica nel nostro Paese costituisce uno dei fattori di sviluppo più importanti non solo in termini economici, ma anche sociali e culturali.

L’immigrazione da un segno positivo al nostro Paese, abituato a leggere solo il segno positivo della crescita del PIL.

L’immigrazione in Italia infatti offre almeno 5 segni positivi, in termini economici e sociali:

 

+ Giovani. Il mondo dell’immigrazione è formato da più giovani nel mondo del lavoro. Le classi più numerose di immigrati nel mondo del lavoro sono quelle dei 25/29 anni e quella 30/35 anni. Le corrispondenti generazioni italiane sono quelle meno numerose in seguito al calo delle nascite.

+ Lavoratori. In Italia sono residenti 2.441.251.000 lavoratori immigrati secondo i dati del primo semestre della Rcfl-Istat, di cui 1.627.725 non UE (extracomunitari) e 813.526 lavoratori comunitari. Senza i lavoratori immigrati alcuni comparti lavorativi sarebbero gravemente in crisi: penso ai servizi collettivi e personali (con il 39,3% di lavoratori immigrati sul totale degli occupati), al mondo degli alberghi e dei ristoranti (con il 19,2% di lavoratori immigrati sul totale degli occupati), al mondo delle costruzione (con il 18% dei lavoratori immigrati sul totale degli occupati), all’agricoltura (il 17,1% di lavoratori immigrati sul totale degli occupati). Il Nord e il centro Italia sono le regioni che hanno maggiormente beneficiato dell’apporto dei lavoratori immigrati: questo spesso lo si dimentica.

 

+ Imprese. Per molti immigrati, un modo per migliorare la propria condizione lavorativa è quella dell’avviare un’attività autonoma. Nel mondo delle attività lavorative degli immigrati un ruolo importante è assunto dall’imprenditoria, come ricorda il report della Commissione Bilancio: oltre 524.000 nel 2014, con un calo del 6,9% di imprenditori italiani nel periodo 2009-2014 e una crescita del 21,3% di imprenditori immigrati nello stesso periodo.

L’avvio di un’impresa (o comunque di un lavoro autonomo) rappresenta uno degli sbocchi occupazionali non secondari per gli immigrati. Nella fase di maturazione del processo/progetto migratorio cambia la percezione della temporaneità della loro condizione. In particolare, con la stabilizzazione insediativa, spesso accompagnata dal ricongiungimento familiare, aumentano le aspettative relative alla qualità del lavoro non soltanto sotto il profilo salariale, ma anche di possibilità di carriera, e di diminuzione della nocività del lavoro, ecc.

Ma questo tipo di aspettative collidono con le difficoltà per gli immigrati a migliorare la propria condizione lavorativa all’interno delle aziende, ad esempio accedendo alle funzioni dirigenziali. Come hanno già evidenziato gli studi internazionali e nazionali, la scelta del lavoro autonomo da parte degli immigrati risulta, in presenza di discriminazioni, una risposta reattiva alle difficoltà di inserimento sociale.

Questa strategia sembra essere quanto mai illuminante nel caso italiano, se si tiene conto sia delle vulnerabilità sociali degli immigrati, sia del fatto che la stessa collocazione in segmenti inferiori del mercato del lavoro non permette loro di fare carriera, bloccando di fatto ogni aspirazione alla mobilità sociale.

I Lavoratori immigrati che hanno scelto di radicarsi nel nostro Paese sono soprattutto presenti nelle regioni del Nord e del Centro Italia, e caratterizzati da piccole e medie imprese spesso inserite in distretti industriali, che è chiamato modello dell’industria diffusa.  Il contributo degli immigrati nel settore del cibo  – come ha studiato il Rapporto Immigrazione Caritas e Migrantes nello speciale EXPO del 2014 – ha permesso anzitutto la rivitalizzazione del commercio di vicinato e la trasformazione multiculturale dei quartieri popolari.

Benché oggetto di controversie, spesso mal visto sul piano politico, è un fattore di contrasto del degrado urbano e della desertificazione economica e sociale delle periferie. In secondo luogo, proprio gli immigrati oggi immettono nuova linfa in settori tradizionali da cui gli italiani stanno progressivamente uscendo e che si trovano quindi minacciati dalla difficoltà di ricambio dell’offerta imprenditoriale: mercati rionali, pizzerie, pane artigianale.

 

+ Ricchezza nazionale. Il mondo degli immigrati nel corso del 2014 ha prodotto l’8,8% della ricchezza nazionale, per una cifra complessiva di oltre 123 miliardi di euro (dati della Fondazione Moressa, 2015).

+ Contributi per le pensioni. Nell’ultimo anno i lavoratori immigrati hanno versato ben 10.29 miliardi di euro in contributi previdenziali. Tra il 2009 e il 2013 sono stati oltre 45 i miliardi di euro i contributi versati dai lavoratori immigrati.

Questo significa che 620.000 pensionati, anziani devono ringraziare i lavoratori immigrati se hanno potuto ricevere la pensione. L’INPS, infatti, ci ricorda che la popolazione con più di 75 anni rappresenta l’11,9% degli italiani e solo lo0,9% degli immigrati. Non solo 1 italiano su 10 ha più di 75 anni, mentre sono solo 1 su 100 gli immigrati con più di 75 anni.

Connessi a questi 5 fattori di crescita economica sono legati anche 5 altri fattori di crescita sociale molto importanti per l’Italia.

 

+ Minori. Sono ormai oltre 1 milione e 100.000 i minori immigrati presenti nel nostro Paese, di cui 650.000 nati in Italia. Una risorsa fondamentale in un Paese, come dicevamo, con una natalità tra le più basse al mondo.

+ Nascite e figli. Ormai il 19% delle nascite avvengono in una famiglia e in una coppia di persone immigrate nel nostro Paese. Finora questa crescita di nascite ha potuto far crescere l’Italia. Ma fino a quando?

 

+ Famiglia. Le famiglie con almeno un componente straniero sono 1.828.338 e costituiscono il 7,4% delle famiglie. I ricongiungimenti familiari, unitamente alle nascite sono le due risorse che vedono la crescita dell’immigrazione nel nostro Paese, che ha visto praticamente il fermarsi dell’arrivo di lavoratori.

 

+ Studenti. Oltre 800.000 studenti stranieri nelle scuole italiane ha permesso di far uscire dalla precarietà molti insegnanti, di salvare migliaia di classi e centinaia di scuole, soprattutto nei Comuni più piccoli, che diversamente sarebbero state chiuse.

 

+ Culture e religioni. Il mondo dell’immigrazione nel nostro Paese ha regalato anche una ricchezza interculturale e interreligiosa, che ha generato conoscenza, rispetto, incontro: tra Occidente e Oriente, tra mondi cattolici diversi (rappresentati da 1 milione di cattolici), tra mondo cattolico e mondi dell’islam (oltre 1 milione e mezzo di islamici in Italia), tra mondi cristiani (con oltre 1 milione e quattrocentomila ortodossi)

 

 

Le rimesse economiche e sociali: risorsa per la cooperazione allo sviluppo

 

Prima di chiudere, volevo fermare l’attenzione su uno dei modi concreti coi quali i migranti conservano un legame con la propria rete familiare-parentale rimasta in patria: quello dell’invio di rimesse. Da questo punto di vista, le rimesse possono essere intese come trasferimento di risorse alla comunità d’origine ed essere una risorsa anche di sviluppo dei Paesi di provenienza.

Si tratta dell’espressione concreta di questo legame che da simbolico-affettivo si concretizza in una sorta di condivisione, con i propri cari rimasti in patria, del proprio successo migratorio. In molti casi, questa condivisione può essere interpretata, soprattutto nelle prime fasi del percorso migratorio, come una sorta di “risarcimento” dell’aiuto – cognitivo e/o materiale – che si è ricevuto per la pianificazione del viaggio.

Ponendosi sul piano degli effetti del fenomeno delle rimesse si possono fare due considerazioni. Innanzitutto, l’invio di rimesse per la stessa consistenza del fenomeno, smentisce l’immagine prevalente nei discorsi pubblici del migrante povero e derelitto e quindi “parassita” della società d’approdo. Secondo la Banca Mondiale, le rimesse monetarie verso i paesi in via di sviluppo sono stimate in 435 miliardi dollari nel 2014, che corrisponde ad una crescita del 3,5 per cento rispetto al 2014.

Si prevede un ulteriore aumento del 4,4% arrivando alla cifra di 454 miliardi di dollari. La stima prevede altresì che la crescita delle rimesse verso i paesi in via di sviluppo dovrebbe accelerare a una media annua dell’8,4% nei successivi tre anni, portando i flussi a 436 miliardi dollari nel 2014 e 516 miliardi dollari nel 2016.

Nel 2013, poi, il volume delle rimesse verso i paesi in via di sviluppo ha largamente superato quello degli investimenti esteri negli stessi paesi. Gran parte della crescita delle rimesse nel 2014 è inviata nelle regioni da cui proviene la maggior quota di migranti internazionali: Asia Orientale e Pacifico, Asia del Sud, America Latina e Caraibi.

Sembra opportuno fornire qualche approfondimento sull’invio delle rimesse degli immigrati presenti sul territorio italiano. Bisogna tener conto che gli effetti della crisi economica hanno inciso sulla disponibilità di risorse economiche inviate dagli immigrati che vivono in Italia.

Secondo la Fondazione Leone Moressa, nel 2013 si è registrato l’ammontare complessivo delle rimesse degli immigrati più basso degli ultimi sei anni, e che è di 5,5 miliardi di euro. Rispetto al 2012 le rimesse hanno subito una contrazione del 19,5%, pari a 1,3 miliardi di euro in meno. Al primo posto si colloca la Lombardia con 1,18 miliardi di euro, seppure registri anch’essa un calo del 18,8% rispetto al 2012. Il Lazio è la regione che nel 2013 ha subito il più forte calo nel volume delle rimesse (-47,7%), registrando un ammontare di 1,06 miliardi di euro.

Rispetto al 2012, quando da sola percepiva il 39% delle rimesse, la Cina nel 2013 si conferma il primo paese di destinazione (con il 20% del totale), anche se rispetto all’anno precedente ha perso oltre 1,5 miliardi di euro (-59%). Al secondo posto, si colloca la Romania (15,7%), seguita dal Bangladesh (6,3%). Per altri Paesi dell’Asia meridionale, si registrano degli aumenti come nel caso dello Sri Lanka (+62%), del Bangladesh (+51,7%) e dell’India (+22,6%).

Lette attraverso il fenomeno dell’invio delle rimesse, le migrazioni internazionali risultano caratterizzate da una circolarità, alimentata dai flussi migratori tra la società d’origine e quella d’approdo: i flussi finanziari, l’impiego delle rimesse, le strategie economiche degli immigrati e delle loro famiglie hanno evidentemente un impatto non irrilevante sullo sviluppo economico del loro paese d’origine.

Ma, come si è premesso, le rimesse economiche non sono le sole risorse che i migranti trasferiscono in patria. A partire dal fatto che proprio il fenomeno della “fuga di cervelli” (brain drain) ha mostrato di divenire una vera e propria “circolazione di talenti”, con ricadute positive sia sui paesi d’approdo sia sui paesi d’origine. Forse è proprio in questo clima scientifico che è stato coniato il termine rimesse sociali per indicare un fenomeno che ha una lunga tradizione di ricerca mirata e che non può essere inquadrata nei quadri statistici strutturali.

Il trasferimento delle abilità acquisite e il capitale sociale acquisiti nel paese d’approdo può in certe condizioni risultare determinante per lo sviluppo delle società d’origine del trasferimento di competenze. Si tratta, peraltro, di un elemento considerato centrale nella formazione delle comunità transnazionali.

Più sviluppo chiede anche più tutele sociali

 

Negli ultimi tre anni, il mercato del lavoro italiano è stato caratterizzato da tre aspetti. In primo luogo, la diminuzione del numero di occupati italiani è stata accompagnata da un parallelo aumento di occupati stranieri di entrambe le componenti comunitaria e non comunitaria. In secondo luogo, vi è stato un aumento significativo del numero di stranieri in cerca di lavoro, e anche in questo caso tale aumento ha accomunato entrambe le componenti, aumento che però nel I semestre del 2014 ha subito una contrazione. In terzo luogo, vi è stata una crescita degli stranieri inattivi (1.240.312 secondo il report della Commissione Bilancio), che in questo caso è stata in prevalenza concentrata tra gli stranieri non comunitari. Questo fenomeno va letto in ragione della crescente stabilizzazione nel nostro Paese di questa componente il cui peso è crescente in relazione ai ricongiungimenti familiari.

Le dinamiche di flessibilizzazione di queste imprese dovute ad una capacità di adattamento ai mutamenti dei mercati internazionali di sbocco, erano accompagnate, come peraltro da quegli anni in poi si osservò in tutti i sistemi postindustriali, dalla terziarizzazione dell’economia.

In tal senso, l’occupazione di carattere prevalentemente terziario degli immigrati, sembra designare collocazioni omologabili tra loro solo come componente della fascia debole del mercato del lavoro.

La capacità di adattamento alle contingenze economiche che tali imprese avevano dimostrato, si associava in modo efficace con le caratteristiche degli immigrati: una certa predisposizione alla flessibilità lavorativa ed alla mobilità territoriale. Si trattava di immigrati che erano accomunati da precedenti esperienze nei loro paesi d’origine, sia lavorative, sia di migrazioni dalle aree rurali a quelle urbane, e verso paesi confinanti. Essi dimostravano, in altri termini, una spiccata capacità di adattamento: le condizioni del paese di partenza sono in generale tali che qualunque lavoro nel paese d’approdo risponde alla proprie esigenze purché garantisca il miglioramento delle condizioni e di prospettive di vita rispetto a quelle lasciate alle spalle. Nei contesti produttivi delle regioni del Centro e del Nord d’Italia le stesse attività agricole, ancorché stagionali, presentano comunque un aspetto di maggiore regolarità e di maggiore attenzione alla sicurezza sul lavoro.

Ma è qui il caso di ricordare che gli inserimenti lavorativi degli immigrati si innestano su una struttura di disuguaglianze territoriali. Specularmente a quegli inserimenti, occorre considerare che nelle regioni meridionali, per gli immigrati gli inserimenti sono in attività instabili, precarie e in larga parte irregolari.

In queste regioni, i lavoratori immigrati sono sottopagati, esposti allo sfruttamento, e “concorrenziali” rispetto ad una forza-lavoro locale non disposta a condizioni particolarmente gravose e nocive di lavoro. Questi lavoratori vivono spesso in alloggi fatiscenti, con carenza o totale assenza di servizi, oppure in alloggi non destinati ad abitazione (capannoni dismessi, garage, ecc.); e quindi in condizioni igienico-sanitarie precarie.

Questi caratteri problematici non impediscono progetti migratori di radicamento anche in alcune regioni del Sud, come è il caso della Campania, in cui vi sono aree in cui la presenza di famiglie e di minori nelle scuole fa supporre percorsi di inclusione sociale e di successo migratorio, come nel caso degli inserimenti stabili in agricoltura nel litorale domitio e nella piana del Sele, oppure nelle attività di ambulantato a Salerno. In ogni caso, si tratta di un fenomeno la cui consistenza non è comparabile a quella che contraddistingue le regioni che accolgono le maggiori quote d’immigrati; per cui, in linea generale, queste aree si confermano come primo insediamento e transito verso altre destinazioni.

Occorre tener presente che la quota di assunzioni destinate alla contrattualizzazione di manodopera comunitaria ed extracomunitaria è strettamente dipendente dal fattore stagionalità e dal settore di attività economica. I settori che fanno registrare le incidenze percentuali più alte sul totale dei rapporti di lavoro attivati sono l’Agricoltura e le Costruzioni. In particolare, l’Agricoltura è l’unico comparto che nelle regioni meridionali ha fatto registrare un aumento della domanda di lavoratori non comunitari.

Non sorprende, infine, che le qualifiche per le quali si osserva una considerevole propensione alla contrattualizzazione di forza lavoro straniera siano quelle relative alla dimensione del lavoro operaio e non qualificato. Lo scenario del mondo del lavoro degli immigrati non potrebbe essere compreso del tutto se non si facesse un riferimento al fatto che le opportunità lavorative offerte agli immigrati non assicurano loro un vita adeguata al loro inserimento sociale e al loro radicamento.

Per fermarsi solo ad un dato concreto fornito dai microdati Istat, mentre la retribuzione media mensile dichiarata dagli occupati italiani è di 1.326 euro, quella relativa ai cittadini comunitari scende a 993 euro, per scendere ulteriormente a 942 euro per i cittadini non comunitari.

Questo dato deve far riflettere se si confronta con la soglia di povertà relativa, che per il 2013 risulta di 972,52 euro per una famiglia composta di due persone Come già aveva evidenziato l’Istat nel suo studio su questo tema, questa deprivazione si concretizza nell’incapacità di far fronte a spese a cadenza fissa (quali il canone d’affitto e le spese di consumo di gas ed elettricità); quelle impreviste o le spese legate alla soddisfazione delle esigenze quotidiane. Questa deprivazione si riscontra anche a proposito di beni durevoli quali gli elettrodomestici o in mezzi di trasporto. Se si tiene conto, poi, delle composizioni familiari, si rileva che le maggiori deprivazioni sono sofferte dalle famiglie più numerose, in cui la presenza dei minori aggiunge altre spese che risultano per questi nuclei familiari spesso insostenibili. Questi problemi legati alla minore capacità di spesa, a causa dei redditi più bassi, fa sì che le famiglie in migrazione abbiano maggiori probabilità di trovarsi in arretrato con i pagamenti delle spese fisse, come i canoni d’affitto e le bollette, e il mutuo della casa, le spese scolastiche; ma anche per acquistare il vestiario o far fronte alle spese scolastiche per i figli.

 

Conclusione: immigrati, attori di sviluppo

 

Ancora una volta vorrei ripetere in conclusione che gli immigrati sono attori di sviluppo. Non ci potrà essere crescita nel nostro Paese senza il mondo dell’immigrazione. Dell’immigrazione economica e forzata. Anzi le 320.000 persone che sono sbarcate sulle nostre coste tra il 2014 e il 2015, di cui 100.000 sono accolti nelle diverse strutture e oltre 200.000 hanno continuato il viaggio, non possono essere chiamati ‘clandestini’ fino a che non si sono incontrati e non si è raccolta la loro storia, e possono essere un’ulteriore risorsa di sviluppo del nostro Paese e di cooperazione allo sviluppo dei paesi di provenienza. E’ questa una sfida per la crescita dell’Italia.