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Internet nella Costituzione? Un’osservazione sulla proposta del Ministro Colao

Closeup of Computer Screen With Address Bar of Web Browser

Negli anni 60 in pieno consumismo sorgente, si cominciò a parlare di un diritto dei cittadini ad accedere alle nuove forme di acquisto di beni come i supermercati che offrivano una vasta gamma di prodotti ed avevano orario di esercizio più prolungati, per favorire nelle città le famiglie in cui entrambi i genitori lavoravano.

Era certo una delle ambizioni che poteva facilitare la vita. Ma non poteva essere definito un diritto inviolabile dell’umanità l’accesso ai grandi magazzini.

La riproposizione dell’accesso alla rete come diritto costituzionale, rilanciato dal Ministro Vittorio Colao alla Camera mi sembra che non si discosti di molto da quella circostanza.

Non mi pare che possa valere il richiamo, che il ministro Colao cita inevitabilmente, ad un maestro indiscusso della democrazia digitale, quale fu Stefano Rodotà, che nel 2014 aveva guidato una commissione di lavoro, promossa dall’allora presidente della Camera on. Laura Boldrini, che sollecitò in un documento approvato poi dai parlamentari, tale integrazione della carta costituzionale.

I pochi anni che ci dividono da quel lavoro già hanno segnato un mutamento radicale dello scenario. Internet, complice la tremenda pandemia, è oggi per il ¾ delle famiglie italiane una pratica corrente. Non allo stesso modo, questo è vero. Infatti proprio il ministro Colao che dovrebbe assicurarci nei tempi più rapidi la programmazione di un servizio di connessione a banda larga, riconosce che proprio la qualità dell’accesso alla rete fa la differenza. Dunque già oggi non basta dire Internet per tutti, ma dobbiamo specificare quale connettività e per quali elementari servizi assicurarla.

Ma anche questo a me pare ancora parziale e, sotto certi aspetti, persino fuorviante.

In questi ultimi anni la rete si è rivelata un ring in cui si stanno giocando battaglie decisive per la democrazia e la cittadinanza. Non si tratta più di reclamare velocità di accesso, ma di esercitare nuove diritti e nuove prerogative che la dinamica degli interessi che hanno occupato Internet rendono ineludibili.

L’irruzione in campo di potenti sistemi di intelligenza artificiale, in grado di orientare e interferire con i nostri comportamenti- valga per tutti la scia del caso di Cambridge Analytica- e la capacità di poche piattaforme di estrarre una quantità tali di dati dalle nostre navigazioni sufficienti ad assicurare loro il potere predittivo e di programmazione delle nostre identità ha spostato sostanzialmente il limite dell’esercizio della nostra cittadinanza.

L’afflusso indistinto e generico alla rete oggi è un problema di marketing di quei monopoli che possono trasformare ogni utente in un cliente subalterno. Uno stato, con la sua carta fondamentale, deve proteggere i cittadini dal rischio che un diritto diventi una subordinazione, e affermare allora, come requisito essenziale della cittadinanza la volontà che ogni individuo possa attivare le sue relazioni digitali con il mondo in una condizione di autonomia e sovranità rispetto ai poteri tecnologici che incontra nella rete.

Il vero valore costituzionale più che l’accesso in quanto tale alla rete, è la condivisione da parte di ogni cittadino dei propri dati e soprattutto, la conoscenza delle modalità con cui le forme di intelligenza artificiale lo condizionano. Dati e algoritmi come valori sociali condivisi e comunitari è il vero salto di qualità a cui si sta preparando anche l’Unione Europea con il suo prossimo provvedimento sul mercato digitale. Proprio come ci si sta muovendo sui vaccini: non solo accesso ma anche autonomia e conoscenza sul loro funzionamento.

Esattamente con lo stesso criterio con cui si affermò, nella fase costituente, che il lavoro è la base della nostra vita sociale, e poi si sentì la necessità di aggiungere che il lavoro deve sempre essere dignitoso, sicuro e giusto.

Oggi internet rimane uno scacchiere dove si moltiplicano le diseguaglianze, come nella pandemia, stanno dimostrando proprio i comportamenti dei grandi gruppi, come Google, che mentre impedisce a Immuni di adottare il GPS per georeferenziare le proprie informazioni sanitarie, pubblica un mobility report in cui, sulla base di una griglia dettagliatissima di dati su tutti i nostri movimenti sul territorio, ci spiega cosa abbiamo fato e dove.

Dove inizia il diritto di accesso e dove invece si inciampa nella sopraffazione organizzata se si va incontro senza altre garanzie a questa connessione:

Di questo parleremo proprio domani durante il talk settimanale “Un’Ora e Mezza di digitale” che vedrà protagonisti il noto microbiologo Andrea Crisanti, che ci parlerà di come ogni strategia sanitaria contro il virus sia depotenziata senza dati territoriali dettagliati e attendibili; Il professor Walter Quattrociocchi, de La Sapienza di Roma che analizzerà il report di Google, la professoressa Enrica Amaturo, della Federico II di Napoli che valuterà sociologicamente l’impatto proprio di questi diritti nel sistema digitale ed infine il vice sindaco di Bari Eugenio Di Sciascio che rifletterà sul ruolo e le strategie delle città nel contrattare un piano regolatore della connettività e delle intelligenze.

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