i dati

Innovazione digitale, nuove povertà e pensiero irrazionale. I dati italiani che fanno riflettere

di Fernando Bruno, Giornalista e scrittore |

Cosa ricaviamo dai dati degli ultimi mesi? Che arranchiamo in termini di cultura digitale, che persiste un problema di infrastrutturazione tecnologica, e che tali fenomeni diventano macroscopici quando li andiamo ad indagare in alcuni cluster di popolazione.

È trascorso un anno dalla Comunicazione della Commissione europea del 3 dicembre 2020 dal titolo European democracy action plan. Ne ho scritto a caldo su questa rivista e altrove. E desidero ancora una volta ricordarne l’incipit allarmato: “la democrazia non può essere data per scontata”.

In questo anno, nel lasso di tempo che intercorre tra l’assalto al Congresso USA teleguidato attraverso i social (gennaio) e la pubblicazione dei Facebook papers (ottobre), il dibattito culturale e accademico sulle sorti delle nostre democrazie al tempo della primazia delle piattaforme digitali globali si è molto acceso, ruotando attorno al tema del dominio delle tecnologie digitali da parte di una cerchia ristretta di privatissimi poteri che nutrono l’ambizione di giocare da Stati sovrani.

Nel frattempo, siamo stati inondati (mi limito ai numeri che riguardano il nostro paese) da dati e informazioni di cui – affogati come siamo nel mare magnum del nostro bagno mediatico quotidiano – rischiamo di smarrire il senso profondo. Provo a ricordarne alcuni, nel tentativo di proporne una lettura organica.

Partiamo da un dato che ci viene riproposto dalla edizione 2021 del Rapporto DESI (12 novembre 2021) e che ci ricorda che l’Italia resta retroguardia assoluta in Europa quanto ai livelli di alfabetizzazione e cultura digitale della popolazione (siamo venticinquesimi e 12 punti sotto la media UE

Due anni fa la foto scattata dall’OCSE, a testimonianza di un problema che persiste e si cristallizza, non diceva cose troppo diverse: solo il 36,6% dei cittadini italiani utilizza internet in maniera complessa e diversificata;  il 12% degli studenti italiani ha una preparazione digitale largamente insufficiente;  un terzo della popolazione anziana ha inadeguate capacità digitali. In definitiva, secondo la ricerca, solo il 21% degli italiani manifesta un livello di alfabetizzazione idoneo ad esercitare pieni diritti di cittadinanza digitale (OCSE, Skills Outlook 2019).

Un coevo studio ISTAT raccontava una storia analoga, collocando al 29% la soglia degli utenti internet tra i 16 e i 74 anni dotati di competenze digitali elevate (ISTAT, Cittadini e ICT, 2019).

Il Rapporto Lenovo-Censis di poche settimane fa (La digital life degli italiani, 19 ottobre 2021) conferma il quadro: “contiamo complessivamente 24 milioni di italiani che non sono pienamente a loro agio nell’ecosistema digitale”.

L’Osservatorio Agcom sulle comunicazioni, nel n.3/2021 – e qui parliamo di infrastrutturazione – attesta a 19,9 milioni il numero complessivo di reti fisse attivate. Il che vuol dire un 25% di famiglie italiane senza rete fissa.

Il quarto Rapporto Auditel Censis (L’Italia multiscreen: dalla smart-tv allo schermo in tasca, 17 novembre 2021) fornisce un dato ancora più pessimistico: il 10% delle famiglie italiane non dispone di alcuna connessione internet, né fissa né mobile, e il 30% non ha una connessione di rete fissa (ossia circa sette milioni di famiglie, 5 milioni delle quali naviga unicamente da smartphone, non disponendo di altri device).

Indici di povertà, rapporto nord-sud e consumi culturali

Ora vediamo di intrecciare i dati sull’ infrastrutturazione e sul gap di cultura digitale con altri indicatori, segnatamente con gli indici di povertà, le curve anagrafiche, il rapporto nord-sud, i consumi culturali.

Il Rapporto Censis TIM del 3 novembre 2021 mette in luce l’intreccio tra divario digitale e povertà socioeconomica, spiegando come questa relazione diretta colpisca in particolare gli anziani e le donne.

Il già menzionato Rapporto Auditel Censis entra più nello specifico. Sono ancora milioni gli italianiin situazione di digital dividee si tratta soprattutto di “nuclei famigliari composti di soli anziani e famiglie che si trovano in una condizione di forte precarietà socioeconomica, che spesso combinano la mancanza di risorse materiali con la carenza di cultura e di abilità digitali” (pag. 5).

Il dato trova ampia conferma in tutta Europa, dove solo un anziano su cinque utilizza internet anche solo occasionalmente, e solo il 10% di chi lo utilizza abitualmente ha più 65 anni, percentuale che scende al 2% oltre la soglia dei 75  (Cfr. Diritti umani, partecipazione e benessere delle persone anziane nell’era della digitalizzazione, Conclusioni del Consiglio, 9 ottobre 2020  e Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali, What do fundamental rights mean for people, Lussemburgo, 2020).

Il fatto che tutte le curve demografiche, ovunque in Europa, segnalino il progressivo invecchiamento delle popolazioni, costituisce un dato incontrovertibile (cfr. la Relazione della Commissione Europea, L’impatto del cambiamento demografico in Europa, del 17 giugno 2020).

Openpolis, per altro verso, ci ricorda che il 12% delle famiglie senza internet nell’Italia del sud (al nord sono la metà) adduce a motivo l’onerosità della connessione (Le disuguaglianze tra le famiglie nell’accesso a internet, 16 giugno 2020). E qui il tema è la povertà e non la vecchiaia. Al riguardo ISTAT documenta che i poveri assoluti in Italia sono aumentati rispetto al 2019 di quasi un milione di unità, e sono ora 5,6 milioni (mentre quasi altri dieci milioni vengono censiti come “poveri relativi” (Rapporto povertà 2020).

Infine, a completare il quadro, sovviene il fatto che nel 2019, ultimo anno statisticamente rilevante (essendo il 2020 e il 2021 bruciati dalla pandemia e dai lockdown), registriamo un buon 35% di popolazione che dichiara zero consumi culturali e di intrattenimento (Istat, Annuario statistico italiano 2020). Il che vuol dire ovviamente zero libri e giornali. Ma anche zero teatri, cinema, concerti, mostre, musei. Un deserto che si popola fatalmente di altro.

Cosa ricaviamo da questi dati? Che arranchiamo in termini di cultura digitale, che persiste un problema di infrastrutturazione tecnologica, e che tali fenomeni diventano macroscopici quando li andiamo ad indagare in alcuni cluster di popolazione: i milioni di nuclei familiari che fanno fatica ad arrivare alla fine del mese, gli anziani, i residenti in vaste aree del mezzogiorno e/o fuori dai grandi centri urbani. C’è una geografia dello SPID che dice molto al riguardo: se da un lato quasi metà della popolazione (il 48,7%) risulta aver attivato l’identità digitale, i divari sociali e territoriali sono chiarissimi. “Le percentuali più elevate di utenti si registrano nelle grandi aree metropolitane (59,5%) e tra le persone dotate di titoli di studio più alti (tra i diplomati e i laureati si sale al 61,6%). Invece i picchi più bassi di utenti Spid si riscontrano al Sud (40,2%) e tra gli anziani (32,1%)” (Censis, 55° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, 3 dicembre 2021).

Si poteva pensare che il punto di caduta più preoccupante di questi trend fosse l’assenza di consumi culturali di alcun tipo che affligge oltre un terzo della popolazione. Ed invece ecco arrivare l’ultimo Rapporto Censis sulla situazione del Paese che, del tutto inopinatamente, dedica il suo incipit ad indagare il rapporto tra gli italiani e l’irrazionale.

Non che non ce ne fossero le avvisaglie. Dopo un anno e mezzo di pandemia globale costata in Italia oltre 130mila morti, un immenso danno economico ed incalcolabili costi sociali e umani, ancora nell’estate del 2021 un buon 30% di italiani si dichiarava “contrario” o “piuttosto contrario” all’introduzione dell’obbligo del green pass (Ipsos, Gli italiani e il vaccino, 27-29 luglio 2021).

E appena un mese prima, rispondendo ad un sondaggio Swg, alla domanda “quanto sei superstizioso”, un campione rappresentativo della popolazione italiana adulta ha risposto “sempre” nella misura del 5%; un esercito di 2,5 milioni di concittadini adulti che non teme di rivelare che la superstizione costituisce il proprio abito comportamentale quotidiano.

Non è necessario ricorrere a Jean Piaget per intuire che ciò che distingue un adulto da un bimbo nei suoi primi anni di vita è il pensiero logico. Il bambino non distingue sé stesso dal mondo esterno, per cui ogni sollecitazione – suoni, rumori, oggetti, persone – si sussegue senza legami apparenti e senza una ragione specifica. Via via che le sue funzioni cognitive si svilupperanno, ogni cosa acquisirà senso e prenderà il suo posto secondo logica; nel frattempo, il suo immaginario interiore sarà alimentato da un pensiero magico che è al tempo stesso chiave interpretativa e ragione di sopravvivenza e di difesa.

Ora, riflettere sul fatto che ci sia in giro qualche milione di nostri concittadini che ispira la propria esistenza a condotte e convincimenti che attengono più al pensiero magico dei bambini, che non all’armamentario intellettuale di un adulto, non può lasciare indifferenti. Viene in mente il Levi-Strauss che osservava che “l’efficacia della magia implica la credenza nella magia”(Claude Levi-Strauss, Lo stregone e la sua magia, in Les Temps Modernes, marzo 1949, poi nel volume Anthropologie structurale, 1958, cap. IX, edito in Italia da Il Saggiatore, 1990). Qui lo scenario è piuttosto rovesciato, essendo la credenza nella magia il presupposto della sua efficacia.

Italiani irrazionali

Ora, come ricordavo, a confermarci che ci sono legioni di italiani che credono fermamente in cose che il semplice buon senso spiegherebbe in modo opposto è arrivato il già menzionato 55° Rapporto Censis che si apre con un lungo paragrafo che indaga la relazione degli italiani con l’irrazionale e che restituisce (ho letto la replica del direttore de Il Foglio, ma tant’è…) alcune istantanee davvero sorprendenti, del tipo un 6% di italiani (3 milioni di persone) secondo cui il Covid semplicemente non esiste; un 11% che considera il vaccino inutile; un 31% che pensa che le persone siano state trattate come cavie; un quasi 13% che pensa che la scienza produce più danni che benefici; per tacere dell’esercito dei terrapiattisti (5,8%) e delle legioni (addirittura quasi il 40%) di cospirazionisti e teorici del gran rimpiazzamento.

Cosa c’entra tutto questo col Piano d’azione per la democrazia europea? A me sembra che c’entri molto. In particolare, ravvedo una relazione diretta tra i dati che ho ricordato ed alcuni fenomeni politico sociali che sono sotto gli occhi di tutti. Mi riferisco al crescente senso di vulnerabilità e fragilità che crea eserciti di risentiti, che fa alzare muri fisici e recinti mentali, che fa guardare con sospetto all’Europa e al multiculturalismo e con fiducia ai nuovi profeti del rinserramento territoriale.

Perché le nostre civiltà abbiano un futuro all’altezza dei successi conseguiti e delle sfide vinte nella seconda metà del ‘900, non possiamo – io credo – permetterci il lusso di perdere per strada 1/3 di società civile. O le politiche (anche grazie all’immenso flusso di risorse messe in circolo dal Recovery Plan) sapranno essere inclusive redistribuendo risorse, cultura, diritti e opportunità, con interventi strutturali sulla scuola, la formazione, il welfare, la famiglia, o l’esercito dei risentiti andrà fatalmente ad ingrossarsi, vittima di un divide culturale ed economico che ne farà il target ideale dei grandi player digitali che giocano da Stati sovrani. Si tratta di un tema su cui andrebbe conseguita una consapevolezza e aperta una riflessione almeno pari a quella che muove i più avvertiti sul fronte dell’emergenza climatica.