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Industria musicale, ricavi +6% a 16 miliardi nel 2016 ma resta il nodo YouTube

Il forte traino dello streaming (Spotify, Amazon, Apple Music i player più popolari) ha contribuito all’incremento del 6% delle vendite di musica nel 2016, la maggior crescita dell’industria negli ultimi vent’anni certificata dal report annuale dell’IFPI (International Federation of the Phonographic Industry) che fotografa lo stato della industry (Global Music report 2017).

I ricavi totali del 2016 si sono attestati a 15,7 miliardi di dollari, trainati appunto da 112 milioni di utenti streaming in abbonamento che hanno registrato un aumento dei ricavi del 60,4%. Per la prima volta, i ricavi del digitale valgono più del 50% dei ricavi complessivi della musica a 7,8 miliardi (nel 2016 sono aumentati del 17,7%), mentre segnano un segno negativo i ricavi derivanti dal download (-20,5%) e dal fisico (-7,6%).

Dato ancor più significativo è che il 2016 è il secondo anno consecutivo di crescita per il mercato musicale, dopo quasi due decenni di continua flessione nei quali i ricavi sono diminuiti quasi del 40%.

Le case discografiche hanno alimentato questa crescita attraverso consistenti investimenti, non solo a supporto degli artisti, ma anche verso l’intero sistema e le piattaforme digitali, con il rilascio di licenze per oltre 40 milioni di tracce tra centinaia di servizi. Attualmente si lavora quindi con un forte orientamento ad una crescita sostenibile dopo 15 anni nei quali i ricavi sono crollati del 40%. Il successo dipende fortemente dalla risoluzione della distorsione del mercato nota come “Value Gap” – il crescente distacco tra il valore che servizi di upload, come YouTube, generano per se stessi dalla musica e il ritorno per coloro che hanno creato e investito in quei contenuti musicali.

Dal fisico al digitale, dal download allo streaming, dalla proprietà all’accesso. Sono queste le tappe che hanno trasformato l’industria musicale negli ultimi 15 anni, imboccando la via dello streaming di massa come sistema del futuro per gli utenti.

A gettare un’ombra sulla ripresa del settore, Youtube e le basse royalty pagate agli artisti sui servizi di video streaming uploadati che nel 2016 hanno fruttato ai detentori dei diritti 553 milioni di euro a fronte di una audience globale di 900 milioni di utenti. La discrepanza fra questi ricavi e i 3,9 miliardi di dollari raccolti dai detentori dei diritti dai servizi in streaming nello stesso periodo – nonostante il fatto che gli utenti in abbonamento siano nettamente meno a quota 212 milioni – resta un grosso problema che va risolto se l’industria musicale vuole raggiungere appieno il suo potenziale.

Ifpi parla di 1 dollaro per utente versato da Youtube nel 2015 alle case discografiche contro i 20 dollari per utente di Spotify. Un value gap su cui i creatori di contenuti puntano l’indice, chiedendo l’intervento del legislatore.

La Commissione Europea, si legge sul sito della FIMI, ha identificato il value gap come una distorsione del mercato che necessita di un intervento normativo e ha proposte una bozza che è attualmente in discussione presso il Parlamento Europeo ed il Consiglio dei Ministri. Questo settore sta, inoltre, continuando a lavorare per contrastare la distribuzione illegale di musica che danneggia la ripresa del mercato legale. IFPI e le agenzie nazionali, hanno identificato 19.2 milioni di URL di contenuti illeciti nel 2016 e hanno sollevato 339 milioni di richieste a Google richiedendo di “delistare” siti con contenuti illegali.

Mercato italiano

Secondo i dati della FIMI diffusi a marzo, il mercato discografico italiano nel 2016 è stabile con un +0,4% e 149 milioni di fatturato, con il segmento dello streaming in continua corsa, CD e download che scendono, vinile che sale.

Il 54% del mercato Italiano resta tutt’ora appannaggio del prodotto fisico, con il segmento album e il repertorio italiano a prevalere. Nella top 20 annuale dei dischi più venduti in Italia, 17 titoli risultano italiani.

Lo streaming musicale registra un +30% e sono i ricavi dagli abbonamenti a crescere maggiormente, con quasi il 40% di incremento rispetto al 2015. Gli abbonamenti hanno generato oltre 35 milioni di euro e rappresentano il 51% di tutto il segmento digitale.

In questo contesto, sorprende la scelta di Tim di cambiare a partire dal primo maggio il servizio Tim Music e offrire il servizio musicale separato dal bundle con voce e dati come era prima.

“Una scelta che rende il servizio sicuramente meno appetibile per il consumatore e con effetti negativi su tutto il mercato dello streaming italiano. Addirittura offrendo traffico alle app concorrenti“, ha detto Enzo Mazza, Ceo di FIMI.

“La forte differenza tra i ricavi da video streaming e audio, lascia ancora emergere il tema del value gap con piattaforme come YouTube, sulla quale vengono realizzati miliardi di stream (la piattaforma di video sharing è utilizzata per ascoltare musica dall’89% degli italiani – fonte Ispsos Connect 2016,) ma che genera pochissimi centesimi per gli aventi diritto a causa di un baco normativo comunitario”, ha detto Enzo Mazza, Ceo di FIMI.

“Se l’Europa attribuisse una connotazione giuridica univoca per piattaforme come Spotify, Deezer o Youtube i ricavi generati dal video sharing potrebbero anche raddoppiare”, ha concluso Mazza.

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