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Impotenza appresa sul posto di lavoro, in cosa cittadini e imprese continuano a sbagliare?

Cosa vuol dire applicare davvero i principi di uguaglianza sostanziale alle esigenze della collettività? È possibile mediare e limitare i fenomeni legati alle grandi dimissioni o all’incompatibilità del dipendente sul posto di lavoro, post-pandemia? La risposta è da ricercare in strategie di sviluppo aziendale, sicuramente più importanti dei bonus stanziati dallo stato.

La situazione oggi

Lo stato di recente crisi post pandemica, con l’avanzare della guerra tra Russia e Ucraina e il concentrarsi di molti alti fattori, che ognuno di noi vive nel proprio ambiente, hanno portato ad una serie di novità sul piano professionale e lavorativo per dipendenti, free lance e autonomi.

In particolare, è emerso un maggior bisogno di equilibrio tra:

Come conseguenza di questi grandi cambiamenti sociali vi sono stati differenti novità:

Tutto ciò sul piano collettivo o della macroeconomia del lavoro.

Ma cosa sta accadendo all’individuo? Cosa accede alla “microeconomia” del lavoro?

È giusto supportare questi momenti di crisi con bonus economici statali come il reddito di cittadinanza (Legge 28 gennaio 2019, n. 26, che ha convertito con modificazioni il decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4), il bonus per redditi “sotto x euro”, bonus 200 euro, ecc.…? Non solo. Accanto ai bonus lavorativi si aggiungono: bonus affitto, bonus pc, bonus monopattino, ecc.…

Prima di tutto vincolare i benefici economici alla richiesta di un bonus e non soffermarsi invece sui servizi e sullo sviluppo del clima aziendale comporta, a mio avviso, un’importante violazione del principio Costituzionale di uguaglianza:

art. 3 Cost.

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. (uguaglianza formale)

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (uguaglianza sostanziale).

Il rimettere la richiesta di tali misure al singolo può sicuramente incrementare le disuguaglianze, perché permette di fruire dei benefici solo a chi è in grado di consultare un CAF, patronato o disporre con Spid personalmente di ogni singola domanda.

Poi molto spesso vi sono delle misure di controllo e sanzione nel caso di erroneo inquadramento e richiesta del beneficio per aziende, lavoratori e cittadini, che di fatto scoraggiano possibili disparità, favorendo le occasioni di buon uso. Le sanzioni superano di gran lunga i benefici ricevuti in questo caso e non distinguono tra buona e mala fede.

Cosa è e come evitare l’impotenza appresa sul luogo di lavoro

L’impotenza appresa è quella condizione che affligge il lavoratore potenzialmente modello, o comunque dal buon rendimento, che a seguito di vicende lavorative sfavorevoli (es. sfavoritismi e favoritismi, mancata audizione o risposta all’invio di CV, mobbing, ed altri comportamenti spiacevoli), inizia ad accrescere una sfiducia nei confronti delle sue capacità lavorative e si accontenta di limitarsi, si preclude nuove esperienze e sfide lavorative.

La classica metafora dell’impotenza appresa è quello dell’elefante che viene legato ad una corda e a cui si dice: “ora non puoi slegarti, sei incatenato!”. L’elefante nemmeno prova a slegarsi, vede quel vincolo e si ferma in balia degli eventi, eppure con la sua forza ci impiegherebbe pochissimo a spezzare la fune.

Lo stesso può capitare se sul posto di lavoro, anziché incoraggiare la risorsa a crescere, migliorando le condizioni in azienda, il ritmo di lavoro, a fornendo sevizi come nidi aziendali, misure di sicurezza e altri benefit, si procede ad erogare bonus (bonus 200 euro, bonus mamma, bonus welfare, ecc.…).

Questo può addirittura, come nel caso del reddito di cittadinanza, far “cullare” il potenziale candidato e spingerlo dal cercare lavoro a far parte della categoria di quelli che “stanno bene così”. Il valore aggiunto dell’indipendenza lavorativa allora deve essere fatto prevalere rispetto l’assistenzialismo.

Come far prevalere l’indipendenza lavorativa sull’assistenzialismo

Si potrebbero prevedere servizi in allegato ai CCNL di settore, servizi inderogabili e facenti parte del rapporto di lavoro. Ancora, si potrebbero valutare in chiave di neutralità alcuni dati (per ridurre il gender gap, il race gap, ecc.…).

Si potrebbero rivedere i modi in cui viviamo l’azienda, gli spazi e di conseguenza anche i diritti, con una previsione di un finanziamento pubblico che non faccia incappare a carico dei datori di lavoro tutto l’adeguamento senza aiuto e con anche sanzioni.

Un buon esempio è quello che ha previsto l’INAIL per incentivare le aziende a sviluppare luoghi di lavoro inclusivi delle diversità e delle limitazioni fisiche al servizio. Grazie a questo servizio è possibile godere di sovvenzioni pubbliche per migliorare l’ambiente aziendale e permettere di lavorare a quelle persone che diversamente sarebbero state a casa a beneficiare di pensioni di invalidità o di inabilità lavorativa (cfr. www.inail.it – incentivi alle imprese).

Oltretutto i benefici di queste famiglie in cui viene “reintegrato” il lavoratore con limitazioni -a differenza di quanto avviene con gli ausili- hanno i suoi effetti positivi anche sul piano sociale e dell’indotto.  Questi incentivi alle imprese potrebbero essere uno strumento di forza e di sviluppo anche a beneficio di aziende a conduzione familiare che caratterizzano il mercato italiano e a cascata sulla società. Basterebbe un progressivo cambio della mentalità verso la ricerca e lo sviluppo, in un’Italia spesso trascurata anche a causa del poco utilizzo di tali misure. Che ne dite, si può provare?

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