La vicenda delle controverse conseguenze della prima applicazione, nell’estate del 2015, del regolamento ministeriale del luglio 2014 che ha modificato radicalmente le regole del sovvenzionamento pubblico allo spettacolo è stata già proposta ai lettori di “Key4biz” con un’analisi generale e qualche notizia esclusiva (vai a “Fus e Rai alle prese con l’algoritmo della rottamazione”).
A distanza di quasi un mese, appare tuttavia opportuno un aggiornamento, sia perché cresce il malcontento nella comunità culturale italiana, sia perché proprio ieri (mercoledì 23 settembre) il Ministro dei Beni e Attività Culturali e Turismo Dario Franceschini ha avuto occasione di chiarire, per la prima volta in un consesso istituzionale, la propria posizione.
Il ministro si è espresso, durante il cosiddetto “question time”, rispetto ad una interrogazione “a risposta immediata” promossa dal suo collega (ed ex collega come Ministro della Cultura, dal 2005 al 2006 in un Governo Berlusconi) Rocco Buttiglione, di Alleanza Popolare – Ncd (partito che – è bene ricordare – sostiene la maggioranza ed esprime propri esponenti nel governo Renzi).
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La notizia è stata segnalata soltanto da un lancio di agenzia e nessun quotidiano l’ha ripresa, il che testimonia purtroppo il disinteresse che il sistema mediale sembra mostrare rispetto a quel che pure rappresenta un vero sconvolgimento delle storiche “regole” del “sistema” di sostegno pubblico allo spettacolo: proponiamo quindi quest’analisi in esclusiva ai lettori di “Key4biz”.
Riassumiamo opportunamente i termini della vicenda: il Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus) rappresenta dal 1985 lo strumento normativo attraverso il quale lo Stato sostiene le attività di spettacolo, dal cinema al teatro, dalla musica alla danza, per arrivare fino alle attività circensi ovvero allo spettacolo viaggiante.
Le risorse del Fus sono state fortemente ridotte, nel corso di un quarto di secolo (sono attualmente 406 milioni di euro), così come lo Stato italiano s’è – anno dopo anno – disinteressato delle reali dinamiche di un settore così vitale e importante.
Se è vero che i governi di centro-sinistra hanno messo in atto tagli al “budget cultura” non pesanti come quelli praticati invece dai governi di centro-destra, non si può non osservare, nel lungo periodo, una inequivocabile dinamica di complessiva riduzione dell’intervento pubblico a favore della cultura.
Nonostante i Ministri di volta in volta in carica abbiano sbandierato “la centralità della cultura”, ovvero delle arti, della bellezza (un’appendice da segnalare: l’importanza del turismo culturale), con l’eccezione dell’ormai famigerato Giulio Tremonti (passato alla storia con la mitica affermazione lapidaria “con la cultura non si mangia”; frase peraltro in parte smentita, e comunque strumentalizzata nella sua decontestualizzazione), l’interesse vero ed autentico della politica italiana nei confronti della cultura resta più teorico che pratico.
L’origine della querelle in atto la si deve all’ex Ministro Massimo Bray (Governo Letta, dall’aprile 2013 al febbraio 2014), che decise di affrontare alcune criticità del sistema culturale nazionale, e riuscì a far divenire norma dello Stato un decreto legge dell’agosto 2013: si tratta della legge n. 112 del 7 ottobre 2013, ormai nota come “Valore Cultura”.
La legge, che affronta anzitutto tematiche relative al patrimonio culturale (vedi alla voce “Pompei” e simili), al capo 2 interviene in materia di “rilancio del cinema, delle attività musicali e dello spettacolo dal vivo”.
Si tratta della legge che introduce – tra l’altro – misure innovative come l’estensione del “tax credit” all’audiovisivo non cinematografico (quindi anche la fiction televisiva), fino allora concesso soltanto al cinema “theatrical”.
La legge “Valore Cultura” prevedeva che entro 90 giorni dall’entrata in vigore venisse emanato un decreto che rideterminasse “i criteri per l’erogazione e le modalità per l’anticipazione dei contributi allo spettacolo dal vivo”. La legge si limitava a segnalare l’esigenza che i criteri di assegnazione tenessero in adeguata considerazione “l’importanza culturale della produzione svolta, i livelli quantitativi, gli indici di affluenza del pubblico, la regolarità gestionale degli organismi”.
Al Governo Letta ha fatto seguito il Governo Renzi (febbraio 2014), e quindi il decreto ministeriale in gestazione è caduto in eredità a Franceschini: il dm “Nuovi criteri per l’erogazione e modalità per la liquidazione e l’anticipazione di contributi allo spettacolo dal vivo, a valere sul Fondo Unico per lo Spettacolo, di cui alla legge 30 aprile 1985, n. 163”, a firma Franceschini, reca la data del 1° luglio 2014 ed è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 19 agosto 2014.
Il decreto ha messo in atto una vera e propria riforma, arrivando di fatto – secondo alcuni osservatori critici – ad intervenire ad un livello che non gli era proprio (la norma primaria). Come abbiamo già segnalato, il decreto ha determinato gli effetti di un terremoto, provocando una grande “scrematura” tra i richiedenti: molti soggetti storici, che pure godono di consolidata stima, sono stati “tagliati”, o nell’entità della sovvenzione o addirittura esclusi dal sovvenzionamento.
Insieme a tanta acqua sporca, però son state gettate via creature sane, innocenti, qualificate…
Col nuovo regolamento, i criteri “automatici” determinano il 70% della sovvenzione, mentre il residuo 30% è affidato alla valutazione qualitativa (ma con parametri di quantificazione della stessa) delle commissioni consultive, nominate dal Ministro a seguito di una “call” pubblica.
Il sistema selettivo, infine, è stato regolato da un algoritmo, e non a caso intitolavamo sarcasticamente l’edizione del 1° settembre di questa rubrica “L’algoritmo della rottamazione”.
Tra luglio ed agosto, non appena resi noti i risulti della “scrematura”, il mondo dello spettacolo italiano ha registrato reazioni contrastanti: alcuni (per la verità, una minoranza) sono stati ovviamente ben lieti di vedere incrementate le sovvenzioni, o, ancora, di essere stati ammessi per la prima volta al “banchetto” (una delle criticità storiche del Fus era infatti la grave “barriera all’eccesso” determinata dall’esclusione quasi meccanica sulla base del principio patologico del “chi è dentro, è dentro; chi è fuori, fuori resta”), ma molti hanno reagito con prevedibile rabbia rispetto all’esclusione o alla riduzione del sovvenzionamento pubblico.
Sono piovute e stanno piovendo al Ministero decine e decine di “istanze di accesso agli atti” del processo decisionale che ha portato le Commissioni ministeriali a individuare gli assegnatari.
Qualcuno pare stia ragionando su una possibile “class action”.
Si ha poi notizia di soggetti che, dopo aver acquisito gli atti, hanno presentato o stanno presentando al TAR del Lazio (competente per giurisdizione) ricorso con istanza di sospensiva, e si segnala che l’eventuale concessione di una sospensiva da parte del Tar determinerebbe effetti a catena di blocco di tutto il meccanismo sovvenzionatorio.
Sono state anche depositate diverse interrogazioni parlamentari, da più parti e con critiche trasversali: da quella di Laura Puppato ed Elena Ferrara del Pd (del 3.8.2015) a quella di Pino Pisicchio, Presidente del Gruppo Misto (dell’8.9.2015. Addirittura non mancano neanche le petizioni via web.
Da canto suo, il Ministro già a metà agosto (su “La Stampa”, l’unico quotidiano che ha dato ampio spazio alla querelle “regolamento Fus”) aveva rivendicato la correttezza delle decisioni ministeriali, enfatizzando l’innovativa autonomia delle Commissioni tecniche rispetto alle influenze delle politica (intesa evidentemente come clientelismo).
A distanza di oltre un mese il Ministro Franceschini ha ribadito il proprio pensiero, questa volta in una sede istituzionale, qual è la Camera dei Deputati, nella circostanza citata all’inizio.
I lettori più interessati possono fruire dei pochi minuti del “botta e risposta” tra Buttiglione e Franceschini cliccando intorno al minuto 50 della registrazione televisiva del “question time” di ieri, rilanciato da Rai Parlamento (per la trascrizione stenografica clicca qui).
La posizione di Franceschini è netta, e finanche troppo ferma: in sostanza, prima “la politica” interveniva troppo e male, mentre “la rivoluzione” sarebbe rappresentata dalla selezione che “la tecnica” determina.
Francamente, riteniamo l’approccio debole, perché se la politica sostiene il primato della “tecnica”, significa anzitutto che riconosce in un certo senso il proprio fallimento.
Sostiene Franceschini: “Si è sempre detto: la politica fuori! Abbiamo fatto una commissione scelta con curriculum presentati su internet dagli esperti, costoro si sono autocandidati; è stata fatta una selezione dei curriculum e una commissione è stata nominata fatta esclusivamente di esperti, secondo quella procedura. Il Direttore Generale dello Spettacolo non vota più, non è più componente con diritto di voto di quella commissione; ci siamo affidati, come si è detto: fuori la politica e la parola ad una commissione tecnica e indipendente”.
Tuttavia, va osservato, sia il Direttore Generale che i dirigenti responsabili dei vari settori partecipano comunque alle riunioni (sebbene “senza diritto di voto”), e premesso che evidentemente sono – come suol dirsi – “gli uffici” a predisporre le pratiche istruttorie al vaglio delle Commissioni ministeriali, la questione fondamentale resta quella della astrusità di introdurre parametri “meccanici” di valutazione quantitativa finanche della qualità.
Il famoso “algoritmo” appare come una schermatura pseudo-tecnica di decisioni assunte inevitabilmente sulla base di logiche estetocratiche individuali, nelle quali inevitabilmente prevale la soggettività dei componenti delle commissioni ministeriali. Ne deriva l’esigenza che una funzione di mediazione intelligente e sensibile possa e debba essere svolta non soltanto dalla biasimata “politica”, ma dall’ “amministrazione”, che pure rappresenta – evidentemente – una delle anime dell’intervento pubblico.
Plausibile il punto di vista di Buttiglione: “Non è che la scelta sia: o decide la politica o decidono gli «esperti». Ci sono dei criteri oggettivi: la capacità di parlare al pubblico, la quantità di biglietti venduti nel corso della stagione precedente, il livello di occupazione dei posti disponibili, il legame creato con la realtà di un pubblico; non vogliamo usare la parola «mercato», so che ad alcuni di coloro che siedono in questa Commissione la parola «mercato» dà fastidio, diciamo il pubblico. L’arte deve sottoporsi al giudizio del pubblico, e questo è l’unico giudizio oggettivo, l’unico parametro oggettivo che possiamo avere, mentre il parametro artistico è ovviamente soggettivo, per natura sua. Tutta l’estetica moderna è fondata sul primato della soggettività. Uno decide che le sue escrezioni corporali sono un’opera d’arte e le presenta alla Biennale di Venezia con il titolo: «Merda d’artista». Ne capisco le ragioni, potrei spiegarle e non è che non le condivido, però capisco che sono assolutamente soggettive. È per questo che mettere tutto nelle mani del giudizio dei cosiddetti esperti è pericoloso, anche perché – se lo lasci dire da uno che è interno alla corporazione accademica – la corporazione accademica è fatta di uomini, che hanno anche essi i loro legami, le loro preferenze ideologiche e non solo ideologiche; dare loro un potere così grande è eccessivo. Valutiamo anche quel criterio, ma temperiamolo con altri criteri”.
Attendiamo di leggere le risposte del Ministro alle altre interrogazioni, ma siamo curiosi soprattutto di osservare l’esito delle azioni intraprese dai… “tagliati”, dagli esclusi o dai ridimensionati di fronte al Tar.
In assenza di diverse decisioni “autocritiche” da parte del Ministro, potrebbe essere il Tribunale Amministrativo a stimolare una revisione radicale delle decisioni “tecnocratiche” assunte dal Ministero?
In verità, questa potrebbe essere finalmente l’occasione giusta per una riflessione approfondita (e tecnica!) su come lo Stato italiano deve intervenire per sostenere meglio le industrie culturali.
Vorrei segnalare ancora una volta (ed anche da queste colonne) all’onorevole Ministro che lo stato dell’arte delle conoscenza in materia di politica ed economia culturale è in Italia semplicemente disastroso, anche a causa del progressivo depotenziamento delle strutture ministeriali istituzionalmente preposte (l’Osservatorio dello Spettacolo, che dipende dalla Dg che era diretta da Salvo Nastasi, e l’Ufficio Studi, che dipende dal Segretariato Generale retto da Antonia Pasqua Recchia).
Se il Ministro Franceschini crede così tanto nella tecnocrazia, perché non consente al suo stesso dicastero di disporre della strumentazione tecnica (appunto) minimamente indispensabile per il miglior buon governo della “res publica” culturale?!
E perché ritiene che i suoi funzionari (tra cui vi sono indubbie eccellenze gestionali) debbano essere ridotti al ruolo di “passacarte” dei tanto decantati “tecnici” esterni all’Amministrazione (la cui indipendenza e terzietà non è peraltro sempre incontestabile) ?!
La vicenda del nuovo regolamento Fus diventa sempre più complessa.
Quale sarà il prossimo accadimento? Necessario seguire le prossime puntate.