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ilprincipenudo. L’incerto destino della Rai e l’inerzia del Governo

Angelo Zaccone Teodosi

Angelo Zaccone Teodosi

Delle due, l’una: o a Matteo Renzi importa assai poco della Rai o….importa assai.

Nella prima ipotesi, la delusione non può che essere grande, per chi ha creduto e ancora crede nel suo “new deal” riformista, perché un premier moderno anzi post-moderno non può pensare che sia soltanto il web determinante, per la costruzione del consenso oltre che per la democrazia di una nazione (possono crederci Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, ed i risultati si vedono, nella loro ghettizzazione, causata in parte anche da dinamiche di sprezzante autoisolamento).

ilprincipenudo ragionamenti eterodossi di politica culturale e economia mediale, a cura di Angelo Zaccone Teodosi, Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) per Key4biz.
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Nella seconda ipotesi, la preoccupazione non può che essere altrettanto grande, perché, dopo questi mesi di governo (Renzi è in carica dal 22 febbraio 2014), sfugge a chiunque il… disegno, e naturale sorge il dubbio che la strategia non ci sia proprio, oppure cresce la preoccupazione che – peggio – il disegno ci sia, ma sia occulto e perverso: magari a Renzi la Rai interessa così tanto che preferisce non intervenire direttamente, perché finirebbe per provocare sconvolgimenti di un sistema che forse gli va bene così com’è?!

Negli ultimi giorni, si è assistito a dinamiche non all’altezza di un Paese avanzato, serio, normale: un consiglio di amministrazione (che dovrebbe essere autonomo dal Palazzo – no?! – per quanto, peraltro, espressione dello stesso) decide di ricorrere alla magistratura amministrativa per contestare una irrazionale decisione dell’esecutivo (la riduzione di 150 milioni nei flussi reddituali del gruppo)… E quali sono le reazioni? Una consigliera espressa dal centro-destra, la Luisa Todini, grida allo scandalo e si dimette (forse anche perché avrà il suo bel da fare, dato che a maggio Matteo Renzi l’ha nominata Presidente di Poste Italiane…). Due consiglieri designati dal Pd, ma in rappresentanza (secondo le dichiarazioni dell’ex segretario del partito Luigi Bersani) della cosiddetta “società civile” (espressione peraltro sfuggente e polisemica non meno di “popolo del web”) si dichiarano favorevoli al ricorso al Tar, e la renziana neo-responsabile della cultura del Pd – dal settembre 2014 – Lorenza Bonaccorsi, chiede a gran voce le… dimissioni dei consiglieri Rai Benedetta Tobagi e Gherardo Colombo (Bonaccorsi già criticò aspramente Tobagi allorquando ebbe l’ardire di firmare un appello contro la riforma costituzionale).

Evviva l’autonomia! Evviva il pluralismo! Evviva la democrazia!

Pochi – e tra loro chi scrive queste noterelle (si veda l’edizione di giugno 2014 della rubrica Osservatorio IsICult su “Millecanali”, n° 445) – hanno enfatizzato che l’associazione delle emittenti televisive pubbliche europee, l’EBU (European Broadcasting Union) ha addirittura indirizzato una lettera al Presidente della Repubblica, per segnalare come l’improvvisa riduzione budgetaria Rai rappresentasse un segnale grave per la stessa democrazia italiana.

Il 19 maggio, Ingrid Deltenre, Direttrice Generale dell’EBU, ha scritto al Presidente Giorgio Napolitano: “…Noi siamo preoccupati perché questo prelievo forzoso viene effettuato sull’esercizio in corso, non lasciando praticamente nessun margine di manovra per il management dell’azienda per recuperare in corso d’opera. Mai qualcosa di simile era accaduto in un Paese dell’Unione Europea, e i soli precedenti da noi conosciuti sono avvenuti in paesi dei Balcani assolutamente non comparabili con la tradizione democratica dell’Italia”.

Non si ha notizia della risposta del Presidente della Repubblica (che sarà stata cortese e diplomatica), ma certamente Renzi si sarà infastidito per quella che avrà ritenuto una impropria… ingerenza.

Comunque, l’Ebu ha purtroppo fatto un buco nell’acqua.

E come giudicare l’operazione Rai Way, in assenza totale di una strategia di sistema, se non un oggettivo indebolimento del gruppo radiotelevisivo pubblico italiano, operazione invece da alcuni spesa come benefica iniziativa di convergenza pubblico-privato, nel nome del (pseudo)liberismo?!

E che dire dell’ipotesi di riforma del canone (con la saggia modulazione reddituale correlata al pagamento delle utenze elettriche), annunciata e poi rientrata ovvero rimandata?! Un balletto di dichiarazioni, voci, indiscrezioni, contraddizioni: in sintesi, una gran confusione.

E che fine ha fatto la grande consultazione pubblica (anzi “popolare”) sulla Rai che pure era stata annunciata qualche mese fa, dal Sottosegretario Antonello Giacomelli?! Sacrificata anch’essa sull’altare di “altre” priorità, immaginiamo.

Se si dovesse analizzare il governo del Paese limitandosi ad osservare la politica mediale, il giudizio non potrebbe che essere netto: un vero disastro.

Si salva un po’ la politica culturale, perché va riconosciuto al ministro Dario Franceschini di aver avviato alcune riforme, piccole e timide, ma degne di apprezzamento: dalla legge cosiddetta “Art Bonus” che estende le agevolazioni fiscali a favore della cultura (tentando di recuperare un ritardo di decenni rispetto ad altri Paesi europei) al tentativo di equiparazione dell’Iva ridotta per i libri su carta anche agli ebook (una norma logica e normale e finanche banale, se l’Italia fosse un Paese normale, ma tale non è).

Resta il problema essenziale e centrale di una politica mediale che è disgiunta dalla politica culturale, allorquando le due aree di intervento sono intimamente connesse e dovrebbero avere un governo unico, una “policy” congiunta.

Ci domandiamo cosa riuscirebbe a fare Franceschini, se avesse anche la delega sui media e le tlc e finanche sull’agenda digitale.

Ma a poco serve sognare la Francia…

Nel mentre, tutto sembra restare apparentemente statico-stagnante.

L’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni resta assopita (presa da problematiche veramente… strategiche, come il conflitto interno: sede a Napoli o a Roma? E brilla per il suo assordante silenzio… su Rai, non una parola!). Temiamo che un qualche “dissidente” in consiglio venga azzittito da una maggioranza che evidentemente è proprio lieta dello status quo del sistema mediale nazionale.

La logica sembra quella di sempre: navigazione a vista, governo del contingente, e… “tutto va ben madama la marchesa”!

E, su altro fronte, i due dissidenti Rai (Tobagi e Colombo) sono forse riusciti a modificare qualcosa, rispetto alle logiche autoconservative del pachiderma Rai?

Non ci sembra, ahinoi, e son trascorsi due anni e mezzi dalla loro nomina (luglio 2012).

Finché i consiglieri di amministrazione della Rai o i consiglieri dell’Agcom continueranno ad essere nominati con logiche di lottizzazione partitocratica, i risultati non potranno che essere quelli che sono sotto la vista di tutti: devastanti.

E non basta qualche spirito libero a poter invertire la deriva.

Il Presidente della Commissione di Vigilanza tende a farsi gran vanto della propria azione libera ed indipendente, ma in verità, se dobbiamo onestamente analizzare i risultati concreti, il giudizio sull’operato di Fico non può che essere deludente.

Quel che è stato pattuito al Nazareno e nei successivi incontri è noto a pochi intimi, fiduciari assoluti di Renzi e Berlusconi, ma siamo convinti che la questione “televisiva” sia stata oggetto di accordi ovviamente occulti, se non scellerati.

Mediaset ha naturale interesse a mantenere l’assetto attuale del sistema duo-triopolistico, e quindi verosimilmente Silvio Berlusconi avrà richiesto a Matteo Renzi di non muovere palla in materia.

Si ha la sensazione che questa istanza conservativo-conservatrice sia verosimilmente stata fatta propria da Renzi, mettendoci anche un carico da novanta: indebolire comunque la tv pubblica, lasciarla a bagnomaria, non definire alcuna strategia, fare in modo che quel che resta della sua autonomia dal sistema politico-partitocratico entri in contraddizione interna, inerzialmente.

La scelta di imporre autoritariamente un taglio di 150 milioni di euro non ha alcuna logica, se non quella isterico-punitiva: mettere in ginocchio un gruppo mediale che da molti anni non riesce ad essere dotato delle risorse adeguate alla funzione istituzionale che pure dovrebbe svolgere, per la democrazia anzitutto ma anche per lo sviluppo delle industrie culturali nazionali. Il problema Rai è certamente anche di “governance” (che va riformata), ma anzitutto di stabilità reddituale: ed è evidente la volontà del governo in carica di non garantire alcuna certezza al “PSB” nazionale. Anzi, di mantenerlo sotto la spada di Damocle di una profonda e continua incertezza.

Il Slc, Sindacato Lavoratori della Comunicazione si associa, per quanto riguarda i lavoratori Rai, allo sciopero generale proclamato dalla Cgil per il 12 dicembre, ma temiamo che questa manifestazione non provocherà effetti significativi rispetto alle politiche decisioniste di Renzi, e certamente non stimolerà il premier a prendere posizione netta e chiara sulla tv pubblica italiana. Crediamo che Renzi preferisca lasciare la Rai a cuocere nel suo brodo.

È vero che “c’è tempo”, dato che la Convenzione Stato-Rai scade nel maggio 2016.

È altrettanto vero che l’attuale cda scade nell’aprile 2015.

Se Renzi continua così, però, queste scadenze verranno affrontate con le vetuste logiche di sempre, con buona pace d’ogni vocazione riformista.

Due parole sintetizzano la (non) strategia di Renzi in materia: conservazione ed inerzia.

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