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ilprincipenudo. Legge Cinema: la direzione è giusta, ma il percorso resta incerto

Angelo Zaccone Teodosi

L’attenzione del rutilante mondo del cinema è naturalmente attratta in queste ore dall’avvio della 11ª Festa del Cinema di Roma (ieri sera l’inaugurazione), ma qui ci piace concentrarci su temi meno… “frivoli”, o comunque meno effimeri (molta attenzione abbiamo peraltro dedicato al correlato Mercato Internazionale Audiovisivo: vedi “Key4biz” del 12 ottobre 2016, “Il Mia è funzionale a promuovere l’audiovisivo ‘Made in Italy’?”).

Come è noto ai più, giovedì 6 ottobre 2016 il Senato della Repubblica ha approvato (con 145 sì, 6 no, 30 astenuti) il cosiddetto “ddl Franceschini”, conosciuto anche come “ddl Franceschini-Giacomelli” e finanche come nuova “legge cinema”: si tratta del disegno di legge n. S 2287, che tra pochi giorni passerà alla Camera dei Deputati – in collegamento alla manovra di finanza pubblica – per un’approvazione che si ha ragione di ritenere imminente, e forse anche senza significative ulteriori modificazioni.

Va ricordato che sabato 8 ottobre a Firenze è stata organizzata una kermesse, in occasione della prima del film (hollywoodiano) “Inferno” (per la regia di Ron Howard, tratto dall’omonimo best-seller di Dan Brown, produzione Sony, distribuzione Warner in Italia, in sala da oggi), durante la quale il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, con toni entusiasti, ha sostenuto la magnificenza della nuova legge cinema, contestualizzandola in uno scenario di riforma ben più ampio: “i meccanismi superano le commissioni e si basano su un automatismo per chi rispetta certi requisiti: è una logica che sta segnando tutta l’attività del Governo, un meccanismo che supera quello degli amici degli amici… non daremo soldi ai filmacci”.

I colleghi de “il Fatto Quotidiano” verosimilmente dissentono rispetto alle logiche degli “amici degli amici”, ma torneremo presto sulla vetrina fiorentina. Ci piacerebbe comunque sapere da Renzi quali sono i titoli che definisce “filmacci”.

Alcuni lettori di “Key4biz”, ed in particolare quelli più attenti nel seguire questa rubrica, si sono domandati per quale ragione non ci siamo finora mai espressi a pieno su questa novella legge in gestazione: questa mattina una delle più pugnaci associazioni del settore cinematografico-audiovisivo italiano, i 100autori, ha diramato un comunicato stampa (che segue, a distanza di qualche giorno, e quindi a freddo, le prese di posizione a caldo assunte da soggetti come l’Anica e l’Agis), e lo cogliamo al balzo, perché riteniamo possa stimolare un avvio di ulteriore riflessione critica.

Era comunque opportuno attendere almeno l’approvazione del testo da parte del Senato, prima di pronunciarsi, per evitare… fiumi di parole, oltre che di emendamenti. Si osservi che il “fascicolo” documentativo elaborato dal Senato consta di oltre 1.600 pagine!

Scrivono oggi i 100autori (associazione di cui Andrea Purgatori è Coordinatore nazionale e Francesco Bruni Presidente): in positivo, si segnala che, “nel provvedimento, per la prima volta, il Cinema e la Televisione vengono posti sotto la stessa cornice, vengono introdotte diverse definizioni, fra le quali quelle di “documentario”, “film difficile”, “opera d’animazione” e “sala d’essai”, importanti per le specifiche assegnazioni dei contributi, e vengono previsti interventi finalizzati ad una transizione verso un sistema più moderno di finanziamento e di rilancio di tutto il settore, non solo sul piano industriale ma anche a garanzia degli autori”.

Si precisa subito dopo che “il giudizio finale però rimane sospeso, poiché ci sono nel ddl delle criticità, che risiedono in due ambiti interconnessi: l’effettiva ripartizione delle risorse, in particolare quelle destinate ai contributi selettivi, e il rinvio di numerosi aspetti in apparenza solo “tecnici” ai decreti attuativi e legislativi che verranno pubblicati dal Governo nei prossimi mesi”.

In queste due considerazioni, riteniamo si possano ritrovare le perplessità di molti operatori del settore e di molti analisti.

Certamente non di soggetti come l’Anica, che ha presto manifestato “grandissima soddisfazione” per il voto in Senato, a seguito di “discussione articolata ed esaustiva”…

Certamente non di soggetti come l’Agis, che ha ringraziato il Ministro per “la caparbietà” e la senatrice piddina Rosa Maria Di Giorgi (relatrice del provvedimento) per il “lavoro serio e meticoloso”…

Oggettivamente la nuova legge va nella direzione giusta, anzitutto perché incrementa le risorse che lo Stato assegna al settore: se nel 2014 il totale dei sostegni al cinema era stato di 203 milioni di euro, cresciuti a 266 milioni nel 2015, con la nuova legge si stabilizzerebbe un flusso annuale di ben 400 milioni euro.

Dopo anni di “vacche magre” e di pseudo “spending review” (e di politiche culturali indegne di una nazione moderna), lo Stato riapre finalmente i cordoni della borsa: e questa è cosa buona e giusta.

Ed è senza dubbio positivo che, finalmente, dopo decenni di isolamento ideologico ed operativo, lo Stato intenda considerare – almeno concettualmente – assieme, pur nella loro diversità, il “cinema” e l’“audiovisivo” (così intendendo in verità l’audiovisivo non destinato alla prioritaria utilizzazione “theatrical”).

La questione delicata ed essenziale che viene subito dopo questo doveroso apprezzamento è una domanda sul senso profondo della strategia dello Stato, che appare ancora confusa, e sulla concreta operatività della norma, che prevede troppi decreti attuativi, che inevitabilmente sfuggiranno al controllo del Parlamento.

Il Movimento 5 Stelle ha sostenuto che si tratterebbe di una “delega mascherata”, denunciando tra l’altro come “non sia previsto un termine entro il quale emanare i decreti attuativi”.

Basti pensare che la nuova legge delega il Governo ad adottare decreti legislativi per rinnovare le procedure in materia di obblighi di investimento e programmazione di opere audiovisive europee e nazionali da parte dei “fornitori di servizi media audiovisivi”: quella delle “quote obbligatorie” è questione essenziale per lo sviluppo dell’industria culturale nazionale, ma in Italia, nel corso dei decenni, si è veramente trasformata in una brutta barzelletta (anche grazie alla solita sonnolenza dell’Agcom).

Tante volte, anche su queste colonne, abbiamo segnalato i deficit gravissimi del “sistema informativo” delle industrie culturali italiane: vale per tutti i settori, ma certamente per il cinema, che pure – tra i vari settori – è indubbiamente il più sostenuto dallo Stato.

Per il cinema, i dati in verità, almeno in parte, ci sono (va dato atto alla Direzione Generale Cinema retta da Nicola Borrelli di essersi sforzata affinché il dataset crescesse), ma purtroppo mancano completamente le analisi critiche e le valutazioni di impatto. Non a caso, ci domandavamo su queste colonne qualche mese fa, “Come sta il cinema in Italia?! Diagnosi dubbia, terapia incerta” (vedi “Key4biz” del 15 luglio 2016).

Tante volte, anche su queste colonne, abbiamo lamentato – esemplificativamente – come si continui a decantare il… “tax credit” e le sue presunte capacità eccezionali, senza che nessuno abbia finora mai effettuato uno studio approfondito sulla sua reale efficacia nel rafforzare il tessuto industriale diffuso, nello stimolare pluralità d’impresa e pluralismo espressivo.

Ne consegue un giudizio inevitabilmente lapidario quanto interrogativo: come diavolo si può “riformare” ragionevolmente un settore, se non si dispone delle valutazioni tecniche indispensabili (preliminari ed essenziali) per comprendere se gli interventi adottati dallo Stato sono realmente benefici, in termini economici e culturali?!

Questa è la ragione del nostro “silenzio”, ovvero della prudenza che riteniamo debba essere adottata – almeno dagli analisti indipendenti e seri (ovvero dagli operatori del settore non legati ad interessi specifici) – sulla nuova architettura normativa che è stata costruita in questi mesi.

Non siamo poi gli unici a rimarcare come il tentativo di far convergere la proposta parlamentare iniziale (ideata dalla senatrice Rosa Maria Di Giorgi) con la proposta governativa (di fatto attribuibile, per semplicità, a Dario Franceschini, ma certamente dovuta al lavoro del suo consigliere Lorenzo Casini, oltre che al Dg Nicola Borrelli ed al suo staff di consulenti) abbia prodotto un testo con non poche contraddizioni interne, piuttosto ridondante ed in alcune parti discretamente confuso ed incerto (vedi i tanti rimandi ai decreti attuativi).

Proponiamo comunque, qui di seguito, due questioni (delicate) e quesiti (irrisolti), ma molte altre osservazioni critiche possono emergere da un’analisi approfondita, serena, equilibrata, della proposta di legge:

  1. che senso ha “riformare” il settore cinematografico e audiovisivo, se non si interviene in modo organico e coerente, contestualmente e contemporaneamente, anche sulla riforma del servizio pubblico radiotelevisivo?

Se è infatti vero che la legge Di Giorgio-Franceschini-Giacomelli supera concettualmente le paratie storiche tra “cinema” e “audiovisivo”, essa è assai timida nel disegnare un nuovo possibile “sistema multimediale” nazionale, considerando che assai poca, anzi sostanzialmente nessuna attenzione viene assegnata alla nuova rivoluzionaria dinamica dei contenuti prodotti “in rete”.

E, dal canto suo, la riforma della “governanceRai non ha certo chiarito la “mission” del “public service broadcaster” italiano, ed il suo ruolo nell’economia complessiva del sistema: basti pensare alla “integrazione verticale” Rai / RaiCinema nel settore “theatrical”: ha senso?! non è dato sapere; qualcuno ha forse mai studiato il senso di quest’intervento della tv pubblica italiana nel settore?! non è dato sapere… E che dire della dinamica a singhiozzo nella redazione della novella “convenzione” decennale Stato-Rai, che pure potrebbe (avrebbe potuto) affrontare anche questi nodi?! Forse è meglio stendere un velo di pietoso silenzio: intanto, il termine del 31 ottobre 2016 è slittato ormai al 31 gennaio 2017, con dinamiche à la Pulcinella, e la “bozza” ministeriale continua ad essere un oggetto misterioso…

  1. Che senso ha “riformare” il settore cinematografico e audiovisivo, se non si interviene in modo organico e coerente, contestualmente e contemporaneamente, anche sulla riforma del diritto d’autore?

Ovvero non si affronta un altro capitolo nodale dell’industria culturale italiana, qual è il ruolo della Società Italiana degli Autori e degli Editori, che continua ad esercitare un monopolio di fatto. Anche su questo fronte, il Governo appare incerto; la Siae – dal canto suo – continua a sostenere che, se venisse parzialmente delegittimata nel suo ruolo, tutta l’industria culturale italiana verrebbe ad impoverirsi; i suoi avversari – Soundreef in primis – sostengono invece che verrebbero a ridurre i loro privilegi i “maggiorenti”, ovvero poche decine di autori ed imprenditori che beneficiano plutocraticamente dell’assetto attuale, a fronte di decine di migliaia di piccoli autori che fanno la fame…

Anche su questo fronte, nessuno (né il Ministro Dario Franceschini né il Presidente della Siae Filippo Sugar né l’“avvocato del diavoloGuido Scorza – che rappresenta il maggior oppositore tecnico ed ideologico allo status dominante della Siae – né altri) è in grado di dimostrare alcunché, perché non esistono dati ed analisi sufficienti a dimostrare le tesi di una parte o dell’altra.

Nella incoscienza cognitiva e quindi nella confusione perdurante, si osserva semplicemente che nessuno si è posto la ragione del perdurante ruolo della Siae nell’azionariato Rai, con una quota che sarà pur simbolica (soltanto lo 0,44 % del capitale azionario), ma che potrebbe invece acquisire senso in una prospettiva di “psb” più aperto ai propri “stakeholder”…

Noi non sappiamo se sono attendibili le tesi dei grillini, che, sulla legge cinema piuttosto che sulla Siae, continuano a denunciare una sudditanza del Governo rispetto ai “poteri forti”, siano essi le lobby confindustriali piuttosto che le “big 5” della produzione televisiva, piuttosto che il gruppo dei maggiori autori della Siae…

Non lo sappiamo (anche se abbiamo una qualche idea in materia…) perché nessuno conosce realmente la vera verità: nessuno dispone degli strumenti tecnici per poter dimostrare l’una tesi o l’altra.

E, nella notte in cui tutte le vacche son nere, è evidente che si può governare (e contestare) “indifferentemente” andando in una direzione piuttosto che l’altra.

Infine, non solleveremo obiezioni “di stile” (o ideologizzate) su un Presidente del Consiglio che, vestito a festa assieme al Ministro della Cultura, approfitta della prima di un film hollywoodiano per decantare le lodi della nuova legge nazionale sul cinema (sul “red carpet” si notava anche il potente Salvo Nastasi, Vice Segretario Generale della Presidenza del Consiglio, e – secondo alcuni – vero “regista” dietro le quinte di queste iniziative normative)…

Non solleveremo obiezioni simili allorquando la senatrice Di Giorgi rivendica (sulle colonne del “Corriere Fiorentino”) come sia stata la sua città ad aver promosso l’habitat giusto per la legge: “una strada iniziata a Firenze, dal palco dell’Odeon, al Festival France Cinema, dove il presidente Riccardo Zucconi e il direttore artistico Francesco Martinotti chiesero a Matteo Renzi un impegno per avere una legge buona come quella francese. Ci siamo impegnati e ora ci siamo”. Il riferimento è ad un incontro fiorentino del novembre 2013, in occasione del quale Martinotti consegnò, all’allora Sindaco di Firenze e futuro premier, un dizionario di francese, affinché si impegnasse a fare una legge sul modello di quella in vigore Oltralpe…

Molti (inclusi i 100autori e la storica Anac Associazione Nazionale Autori Cinematografici) nutrono dubbi su quanto di… “francese” ci sia ormai effettivamente in questa legge (almeno nel testo approvato dal Senato il 6 ottobre), se non una generica ispirazione, contraddetta da molte modificazioni sostanziali rispetto a quel che dovrebbe essere stato il modello di riferimento.

La Di Giorgi sostiene poi che “saremo in grado di attrarre sempre più produttori dall’estero. ‘Inferno’ ne è un esempio”.

Un’altra domanda sorge spontanea: ma il Governo auspica forse una versione moderna dell’Hollywood sul Tevere di tanti decenni fa?!

Senza dubbio la circolazione di capitali stimola anche la circolazione delle idee, ma forse lo Stato dovrebbe pensare anzitutto all’estensione del pluralismo espressivo (e quindi ai produttori indipendenti ed ai giovani autori in primis, alla ricerca artistica e sperimentazione linguistica, al rapporto con le potenzialità del digitale e del web), oltre che al rafforzamento economico-“industriale” del settore derivante dall’accogliere nuovamente, a braccia aperte (ovvero non esattamente a schiena dritta), nelle nostre belle lande, le multinazionali hollywoodiane…

Si osserva, di fatto, lo stesso atteggiamento con cui Renzi sta trattando, su altri fronti (non meno strategici) le nuove multinazionali dell’immateriale: un tempo si chiamavano “multinazionali dell’immaginario” (e ricordiamo chi era in prima linea nel combatterle in Italia, da Citto Maselli a Luciana Castellina) ed ora sono “multinazionali digitali” ovvero “over-the-top” (ed anche a sinistra – quel che resta della “sinistra” – si ode un assordante silenzio, su queste tematiche fondamentali per il Paese).

Siamo tutti convinti che tutta questa apertura ad una Disney piuttosto che ad un Google siano le chiavi giuste per lo sviluppo dell’industria culturale nazionale?!

Passi la globalizzazione inevitabile ed il superamento degli isolamenti provincial-nazionali, ma qui si corre il rischio di un asservimento alle logiche più evolute del capitalismo planetario, nella sua pervasiva versione digitale. Con buona pace della cultura (e dell’identità) nazionale.

A proposito del magico “tax credit”, Renzi ha sostenuto: “rispetto ai tanti soloni che lo negano, in realtà il tax credit genera ricchezza. Nell’ambito della revisione della spesa, qualche autorevole professore ha spiegato che i soldi dati al cinema sono soldi buttati via. Si sbagliano. Lo strumento del tax credit, a fronte di risorse stanziate dallo Stato (da 96 milioni noi lo porteremo a 170 milioni), consentirà di creare nuova ricchezza per il settore del cinema, per l’indotto e anche per i nostri territori, che potranno contare su un ritorno dal punto di vista turistico”.

Al di là di una qualche imprecisione numerica (i consuntivi ministeriali recano 160 milioni di euro quale entità delle risorse allocate al “credito d’imposta” nell’esercizio 2015), nessuno contesta che produca effettivamente “ricchezza”. Ma che tipo di “ricchezza”, Presidente? E per chi?!

Essendo studiosi abituati a non giocare con la cabala, evitiamo poi commenti particolarmente caustici su novelli fuochi d’artificio numerici: Franceschini e Renzi hanno sostenuto a Palazzo Vecchio che nel 2016 i 170 milioni di euro del tax credit genereranno “ricchezza” che supererà “1 miliardo di euro”. E quindi sarà da attendersi un exploit ancora più grandioso, a breve, dato che la nuova legge prevede che il tax credit salga a quota 260 milioni di euro (e, peraltro, che venga esteso anche alle società televisive che producono “entertainment” o ai produttori di “videogame”)… Ci piacerebbe proprio sapere chi ha elaborato queste stime, e come, e soprattutto – insistiamo – quali parametri siano stati utilizzati per definire questa “ricchezza”.

E che dire dell’ambizioso obiettivo di Renzi “raddoppieremo gli schermi cinematografici attuali”?! Boom!

Intanto, la Rai continua a non dedicare un’attenzione minimamente adeguata al cinema italiano: non esiste, sulla televisione pubblica italiana, 1 rubrica 1 (degna di questo nome) dedicata alla promozione del cinema e dell’audiovisivo “made in Italy”. Ciò basti, per passare dalle belle parole ai fatti concreti, ovvero dagli annunci sfavillanti alla miseria dell’esistente (ci verrebbe da aggiungere, inelegantemente, dalle stelle alle stalle).

D’altronde, il Grande Comunicatore Renzi è un esperto di effetti speciali iconici e semantici, e l’occasione fiorentina dell’8 ottobre lo ha ben confermato.

Con delicatezza, una testata sensibile come “Avvenire” ha intitolato, il 9 ottobre, “Al cinema gli stessi soldi delle famiglie”, commentando in poche righe la sortita fiorentina di Renzi: “400 milioni di euro l’anno. Curiosamente, la stessa cifra che è stata ipotizzata per esigenze ben più importanti: quelle delle famiglie con almeno 2 figli, per le quali si sta pensando ad un nuovo mini-bonus nella prossima manovra”.

Ma questo è un argomento veramente altro, che ci porta fuori dal confine delle noterelle che qui proponiamo (come viene ripartita la spesa pubblica nazionale nel suo complesso, e rispetto alle “priorità” dettate dal Governo: sociali, sanitarie, lavorative, culturali…).

Nel mentre, nella Capitale si rinnova all’Auditorium il rito (passatista) del “red carpet” alla Festa del Cinema, e, presso la Fiera di Roma, s’apre la Maker Faire 2016 (che si autodefinisce “il più importante spettacolo al mondo sull’innovazione”): mondi a parte, veramente distanti, completamente isolati l’uno dall’altro (eppure “industria culturale” ed “innovazione” dovrebbero essere concetti sintonici), ed anche questo è sintomatico del ritardo – non soltanto istituzionale – del nostro Paese…

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